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Bundesgericht 
Tribunal fédéral 
Tribunale federale 
Tribunal federal 
 
 
 
 
6B_234/2022  
 
 
Sentenza dell'8 giugno 2023  
 
Corte di diritto penale  
 
Composizione 
Giudici federali Jacquemoud-Rossari, Presidente, 
Denys, van de Graaf, Koch, Hurni, 
Cancelliera Ortolano Ribordy. 
 
Partecipanti al procedimento 
A.________, 
patrocinato dall'avv. Costantino Castelli, 
ricorrente, 
 
contro 
 
Ministero pubblico della Confederazione, Guisanplatz 1, 3003 Berna, 
opponente. 
 
Oggetto 
Rappresentazione di atti di cruda violenza, infrazione alla Legge federale che vieta i gruppi «Al-Qaïda» e «Stato islamico », 
 
ricorso contro la sentenza emanata il 23 agosto 2021 dalla Corte d'appello del Tribunale penale federale (CA.2020.16). 
 
 
Fatti:  
 
A.  
Dopo aver avviato un procedimento penale nei confronti di B.________, il 9 agosto 2016 il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha esteso l'istruzione penale a A.________ per i titoli di violazione dell'art. 2 della legge federale del 12 dicembre 2014 che vieta i gruppi «Al-Qaïda» e «Stato islamico» nonché le organizzazioni associate (in seguito LAQ/SI; RS 122), organizzazione criminale (art. 260 ter CP) e rappresentazione di atti di cruda violenza (art. 135 CP). Il 12 maggio 2017, appurata l'assenza di collegamento tra i fatti e i reati a loro rispettivamente contestati, il MPC ha disgiunto i procedimenti.  
 
A.a. Il 22 novembre 2017 il MPC ha decretato l'abbandono del procedimento nei confronti di A.________ per i titoli di organizzazione criminale e violazione dell'art. 2 LAQ/SI in relazione all'ipotesi di una sua appartenenza, unitamente al cognato B.________, a un gruppo di islamisti radicali attivi in Ticino nella propaganda jihadista e nell'eventuale arruolamento di combattenti stranieri ( foreign fighters). A.________ è stato considerato estraneo all'opera di proselitismo/ da'wa delle ideologie dei gruppi terroristici e alla propaganda della jihad armata effettuate dal cognato, come pure a eventuali arruolamenti di giovani combattenti. Nel decreto di abbandono, il MPC richiamava anche un decreto d'accusa relativo alle fattispecie penali di rappresentazione di atti di cruda violenza e di violazione dell'art. 2 LAQ/SI connesse alla condivisione di video, oggetto parimenti del procedimento aperto a carico di A.________.  
 
A.b. Lo stesso giorno il MPC ha emanato un decreto d'accusa a carico di A.________, ritenendolo colpevole di rappresentazione di atti di cruda violenza giusta l'art. 135 cpv. 1 CP per avere, in cinque occasioni tra il 3 dicembre 2016 e 22 febbraio 2017, esposto o reso accessibili a chiunque sul suo profilo pubblico Facebook cinque video e due fotografie (capo d'accusa n. 1), nonché del reato di cui all'art. 2 LAQ/SI per avere, il 30 settembre 2016, fatto propaganda a favore dello «Stato islamico», condividendo sulla bacheca del suo profilo pubblico Facebook un video in cui un gruppo di combattenti giustiziano un loro prigioniero facendogli cadere un masso sulla testa (capo d'accusa n. 2).  
A.________ ha interposto opposizione al decreto d'accusa. 
 
A.c. Assunte ulteriori prove, il 13 febbraio 2018 il MPC ha emanato un nuovo decreto d'accusa, mantenendo gli stessi capi d'imputazione contestati a A.________ nel precedente decreto d'accusa e apportando una precisazione con riferimento al video oggetto dell'accusa di cui all'art. 2 LAQ/SI.  
A.________ ha interposto opposizione anche a questo decreto d'accusa. 
 
B.  
Con sentenza del 7 novembre 2018, la Corte penale del Tribunale penale federale ha riconosciuto A.________ autore colpevole di ripetuta rappresentazione di atti di cruda violenza in relazione alla condivisione sul social network Facebook di sei filmati, nonché del reato giusta l'art. 2 LAQ/SI per la condivisione di un video il 30 settembre 2016. Lo ha invece prosciolto dall'accusa di rappresentazione di atti di cruda violenza limitatamente alla condivisione sul social network Facebook di due fotografie. A.________ è quindi stato condannato alla pena pecuniaria di 240 aliquote giornaliere di fr. 30.-- ciascuna, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni.  
Accogliendo il ricorso in materia penale presentato da A.________, con sentenza 6B_56/2019 del 6 agosto 2019, il Tribunale federale ha annullato la decisione della Corte penale del Tribunale penale federale e rinviato la causa all'autorità inferiore per nuovo giudizio. 
 
C.  
In seguito al rinvio del Tribunale federale, con sentenza del 3 settembre 2020, la Corte penale del Tribunale penale federale ha prosciolto A.________ dall'accusa di rappresentazione di atti di cruda violenza limitatamente alle due fotografie pubblicate in rete il 22 febbraio 2017, lo ha invece ritenuto colpevole di ripetuta rappresentazione di atti di cruda violenza con riferimento alla condivisione dei filmati di cui al capo d'accusa n. 1, nonché di violazione dell'art. 2 LAQ/SI con riferimento a quella del video di cui al capo d'accusa n. 2. Gli ha quindi inflitto una pena pecuniaria di 180 aliquote giornaliere di fr. 30.-- ciascuna, sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni. 
 
D.  
A.________ ha appellato il giudizio di primo grado dinanzi alla Corte di appello del Tribunale penale federale (in seguito Corte di appello). 
 
Nelle more della procedura dibattimentale di appello, ha presentato due domande di ricusazione contro altrettante giudici della Corte di appello, respinte seduta stante. Con sentenza 1B_590/2021 del 22 novembre 2021, il Tribunale federale ha respinto, per quanto ammissibile, il ricorso in materia penale presentato da A.________ contro le decisioni incidentali sulla ricusazione. 
Nel frattempo, con sentenza del 23 agosto 2021, notificata alle parti il 13 gennaio 2022, la Corte di appello ha accolto parzialmente l'appello di A.________. Pur confermando la condanna di A.________ per i titoli di ripetuta rappresentazione di atti di cruda violenza e di violazione dell'art. 2 LAQ/SI, la Corte di appello ha ridotto la pena pecuniaria a 150 aliquote giornaliere di fr. 30.-- ciascuna, sempre sospesa condizionalmente per un periodo di prova di due anni. 
 
E.  
Avverso la sentenza della Corte di appello A.________ si aggrava al Tribunale federale con un ricorso in materia penale. In breve postula l'annullamento della decisione impugnata e, in via principale, l'abbandono del procedimento penale a suo carico, subordinatamente il suo proscioglimento da ogni accusa, nonché l'indennizzo dei costi di patrocinio afferenti il procedimento di primo grado e di appello come pure la riparazione del torto morale. Chiede inoltre di essere posto al beneficio dell'assistenza giudiziaria con gratuito patrocinio. 
Non è stato ordinato uno scambio di scritti, ma è stato richiamato l'intero incarto penale. 
 
 
Diritto:  
 
1.  
Presentato dall'imputato (art. 81 cpv. 1 lett. a e lett. b n. 1 LTF) e diretto contro una decisione finale (art. 90 LTF) pronunciata in materia penale (art. 78 cpv. 1 LTF) dalla Corte d'appello del Tribunale penale federale (art. 80 cpv. 1 LTF), il ricorso è proponibile e di massima ammissibile anche perché inoltrato nelle forme richieste (art. 42 cpv. 1 LTF) e nei termini legali (art. 100 cpv. 1 LTF). 
 
2.  
Prima di procedere all'esame delle censure ricorsuali, si impone una breve premessa. Con sentenza 1B_590/2021 del 22 novembre 2021, passata in giudicato (art. 61 LTF), questo Tribunale ha respinto il ricorso inoltrato dall'insorgente contro le decisioni incidentali sulla ricusazione di alcune giudici dell'autorità d'appello. Malgrado questa decisione, nel suo ricorso in materia penale contro la sua condanna, l'insorgente afferma che le violazioni del diritto che imputa all'autorità precedente confermerebbero "l'impressione di parzialità" rispettivamente di "un atteggiamento prevenuto" della Corte di appello nei suoi confronti. Nella misura in cui, in tal modo, egli tenta di rimettere in discussione e criticare la citata sentenza, passata in giudicato, il suo gravame risulta inammissibile, le decisioni del Tribunale federale potendo essere contestate unicamente con il rimedio della revisione giusta gli art. 121 segg. LTF. Si rammenta peraltro che pretese violazioni del diritto, in concreto del resto non date come si vedrà in seguito, non fondano di massima un motivo di ricusazione (v. sentenza 1B_590/2021 del 22 novembre 2021 consid. 4.1). 
 
3.  
Il ricorrente lamenta una violazione del principio ne bis in idem, essendo stato condannato per gli stessi fatti oggetto del decreto di abbandono del 22 novembre 2017 passato in giudicato.  
 
3.1. Il principio ne bis in idem, corollario della res iudicata (DTF 120 IV 10 consid. 2b), è disciplinato dall'art. 11 cpv. 1 CPP, è inoltre sancito dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU (RS 0.101.07), nonché dall'art. 14 cpv. 7 del Patto ONU II (RS 0.103.2) e deriva altresì direttamente dalla Costituzione (DTF 144 IV 362 consid. 1.3.2). Secondo l'art. 11 cpv. 1 CPP, chi è stato condannato o assolto in Svizzera con decisione passata in giudicato non può essere nuovamente perseguito per lo stesso reato. Un decreto di abbandono passato in giudicato equivale a una decisione finale assolutoria (art. 320 cpv. 4 CPP). V'è identità di eventi quando i fatti alla base del primo e del secondo procedimento penale sono identici o fondamentalmente uguali. La loro qualifica giuridica non è rilevante. Il divieto di un secondo procedimento costituisce un impedimento a procedere, che deve essere considerato d'ufficio in ogni stadio della procedura (DTF 144 IV 362 consid. 1.3.2 e riferimenti).  
 
3.2. Nella DTF 144 IV 362, relativa a un abbandono del procedimento penale (art. 319 cpv. 1 CPP), il Tribunale federale ha rilevato che in linea di principio un abbandono parziale del procedimento entra in considerazione quando occorre giudicare più eventi o fatti che si prestano a un trattamento distinto. Un abbandono parziale del procedimento è invece escluso se esso concerne unicamente un'altra qualificazione giuridica del medesimo evento. Se il procedimento penale è parzialmente abbandonato, benché non sussista spazio in tal senso, e l'abbandono parziale passa in giudicato, il suo effetto preclusivo impedisce una condanna per gli stessi fatti. La pronuncia di un giudizio di condanna per i medesimi fatti violerebbe in tali circostanze il principio ne bis in idem (DTF 144 IV 362 consid. 1.3.1 e 1.4).  
Il Tribunale federale ha precisato questa giurisprudenza nella DTF 148 IV 124, ricordando che, se intende reprime soltanto una parte dei fatti nell'ambito di un decreto d'accusa, il pubblico ministero deve emanare simultaneamente un decreto d'accusa e un decreto di abbandono (parziale). Gli abbandoni parziali non conducono all'applicazione del principio ne bis in idem riguardo ai rimproveri per i quali è stata contemporaneamente promossa l'accusa. È determinante che la decisione di abbandono parziale faccia riferimento alla contestuale accusa, promossa o già pendente, rispettivamente alla concomitante emanazione di un decreto di accusa, e sia di conseguenza dichiarata come tale. Dalla decisione di abbandono deve risultare che il procedimento penale non è abbandonato nel suo complesso, ma unicamente in relazione a singole circostanze di fatto aggravanti non dedotte in accusa, come ad esempio ulteriori atti allegati dalla vittima, conseguenze supplementari (quali lesioni supplementari), o elementi aggiuntivi concernenti il foro interiore (quali una volontà omicida dell'imputato eccedenti le lesioni cagionate). Tali decisioni di abbandono parziale non mirano ad abbandonare il procedimento penale nel suo complesso, bensì a stabilire l'oggetto del procedimento giudiziario. La portata della giurisprudenza di cui alla DTF 144 IV 362 va quindi relativizzata, nel senso che l'effetto preclusivo del principio ne bis in idem di un decreto di abbandono parziale passato in giudicato concerne soltanto i fatti concretamente interessati da tale abbandono, non invece i rimproveri per i quali è stata contestualmente promossa l'accusa. Il principio ne bis in idem dev'essere interpretato in modo restrittivo (DTF 148 IV 124 consid. 2.6.6).  
 
3.3. La Corte di appello ha rilevato come il decreto di abbandono e il decreto d'accusa, emanati lo stesso giorno, siano stati pronunciati nell'ambito del medesimo procedimento. Ha poi osservato che l'abbandono si riferiva all'ipotesi di un coinvolgimento del ricorrente nei fatti che concernevano suo cognato, ossia la presunta appartenenza di entrambi a un gruppo di islamisti radicali attivi in Ticino nella propaganda jihadista e nell'eventuale arruolamento di giovani combattenti, mentre il decreto d'accusa riguardava fatti specificatamente circoscritti alla sola condivisione su Facebook di sei filmati e due immagini. Tale distinzione fattuale, continua la Corte di appello, emerge direttamente dal decreto di abbandono, dal quale si evince che il procedimento a carico dell'insorgente era stato avviato anche per il titolo di rappresentazione di atti di cruda violenza, reato oggetto, unitamente a quello della violazione dell'art. 2 LAQ/SI, di un decreto d'accusa separato relativo alla condivisone, da parte del ricorrente, di rappresentazioni di cruda violenza e di un singolo video di propaganda a favore del gruppo «Stato islamico». Il decreto d'accusa concernendo una fattispecie ben distinta da quella del decreto di abbandono, la Corte di appello non ha rilevato alcuna violazione del principio ne bis in ideme conseguentemente alcun impedimento a procedere nel merito della causa.  
 
3.4. Il ricorrente contesta questa conclusione, considerando evidente che il decreto di abbandono e il decreto d'accusa riguardino gli stessi e unici fatti, gli stessi e unici comportamenti e le stesse e uniche ipotesi, ossia la condivisione di determinati contenuti sul suo profilo Facebook. Il dispositivo del decreto di abbandono sancirebbe infatti l'abbandono del procedimento in relazione ai fatti di cui al considerando 1 del decreto. Quest'ultimo farebbe riferimento alla condivisione e all'apposizione di "mi piace" a video e immagini sul profilo Facebook dell'insorgente, di modo che l'abbandono sarebbe stato decretato per fatti in relazione all'utilizzo di detto profilo. L'effetto preclusivo del decreto di abbandono, passato in giudicato, si estenderebbe quindi a tutti i fatti emersi dal monitoraggio del suo profilo Facebook, compresi quelli oggetto dell'attuale procedimento. Il principio ne bis in idem impedirebbe di conseguenza di "statuire una seconda volta [...] su detti fatti o anche solo su parte di essi" e il procedimento dovrebbe pertanto essere abbandonato in base all'art. 319 cpv. 1 lett. d CPP.  
 
3.5. La censura non ha pregio. Essa procede da una lettura parziale e fuorviante del decreto di abbandono. Quest'ultimo sancisce l'abbandono del procedimento per i titoli di organizzazione criminale e violazione dell'art. 2 LAQ/SI relativi "ai fatti di cui al considerando 1". È dunque alla luce di tale considerando che va definita la portata dell'abbandono del procedimento. Orbene, nel considerando 1, il decreto di abbandono indica che il procedimento penale è stato all'origine avviato nei confronti di B.________ per le ipotesi di organizzazione criminale e di violazione dell'art. 2 LAQ/SI, ed è stato poi esteso al ricorrente per gli stessi titoli di reato nonché per quello di rappresentazione di atti di cruda violenza, essendo emerso che sul suo profilo Facebook questi aveva condiviso e apposto "mi piace" a video e immagini di carattere violento con commenti in arabo facenti riferimento alla jihad armata. Spiega in seguito che dall'inchiesta non sono emersi elementi a sostegno dell'ipotesi inizialmente formulata, sulla base degli stretti contatti da lui intrattenuti con B.________, della sua appartenenza a un gruppo di islamisti radicali attivi in Ticino nella propaganda jihadista e nell'eventuale arruolamento di giovani combattenti stranieri, il ricorrente risultando estraneo all'opera di proselitismo e alla propaganda della jihad armata compiute dal cognato, come pure a eventuali arruolamenti di giovani combattenti. In relazione a questi fatti, è quindi stato decretato l'abbandono del procedimento. Tale abbandono concerne dunque il suo supposto coinvolgimento nelle fattispecie che vedevano coinvolto il cognato e non il suo utilizzo del profilo Facebook. È infatti chiaro che il procedimento penale a carico dell'insorgente riguardava due diversi complessi fattuali: da un lato una sua presunta appartenenza a un gruppo di islamisti radicali dedito alla propaganda e all'arruolamento di combattenti e dall'altro lato l'uso del suo profilo Facebook. L'abbandono si riferisce unicamente al primo. Il decreto d'abbandono menziona peraltro esplicitamente il concomitante decreto d'accusa in relazione al secondo complesso fattuale, ovvero quello afferente la condivisione sul suo profilo Facebook di video e immagini, oggetto di questo procedimento. Sicché non vi è alcuna violazione del principio ne bis in ideme non v'è dunque ragione di abbandonare questo procedimento come postulato a titolo principale dal ricorrente.  
 
4.  
L'insorgente contesta poi la sua condanna per titolo di ripetuta rappresentazione di atti di cruda violenza. 
 
4.1. Giusta l'art. 135 cpv. 1 CP, si rende colpevole di rappresentazione di atti di cruda violenza chiunque fabbrica, importa, tiene in deposito, mette in circolazione, propaganda, espone, offre, mostra, lascia o rende accessibili registrazioni sonore o visive, immagini o altri oggetti o rappresentazioni che, senza avere alcun valore culturale o scientifico degno di protezione, mostrano con insistenza atti di cruda violenza verso esseri umani o animali e pertanto offendono gravemente la dignità umana.  
Il reato sanziona le raffigurazioni della violenza nelle sue forme estreme, ossia della brutalità nell'accezione stretta del termine (Messaggio del 26 giugno 1985 concernente la modificazione del Codice penale e del Codice penale militare [reati contro la vita e l'integrità della persona, il buon costume e la famiglia], FF 1985 II 937, n. 214.9). Da un lato, la norma è intesa essenzialmente a tutela dei giovani e degli adulti, evitando che siano confrontati, senza volerlo, con rappresentazioni di questa natura. Dall'altro lato, è volta a scongiurare l'effetto corruttivo delle rappresentazioni della violenza, suscettibili di incrementare nell'osservatore la propensione ad agire con violenza o ad accettare con indifferenza gli atti di violenza altrui (sentenza 6B_149/2019 dell'11 dicembre 2019 consid. 1.3.2; v. pure DTF 131 IV 16 consid. 1.2). La rappresentazione di atti di cruda violenza giusta l'art. 135 CP si configura pertanto come un reato di esposizione a pericolo astratto (FF 1985 I 939, n. 214.9). 
 
4.1.1. Quali mezzi per compiere il reato ( Tatmittel), l'art. 135 CP menziona le registrazioni sonore o visive, immagini o altri oggetti e rappresentazioni, ad esclusione degli scritti. La violenza deve dunque essere rappresentata e non semplicemente (de) scritta (BERNARD CORBOZ, Les infractions en droit suisse, 3 a ed. 2010, n. 11 ad art. 135 CP).  
La disposizione concerne in particolare (ma non solo) le raffigurazioni visive della violenza, comprese quelle visionabili in Internet o nei social network (STRATENWERTH/BOMMER, Schweizerisches Strafrecht, besonderer Teil I, Straftaten gegen Individualinteressen, 8 a ed. 2022, § 4 n. 96; NADINE HAGENSTEIN, in Basler Kommentar, Strafrecht I, 4 a ed. 2019, n. 10 ad art. 135 CP; TRECHSEL/MONA, in Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 4 a ed. 2021, n. 9 ad art. 135 CP; RIEDO/LOGNOWICZ, Happy Slapping: Einmal Opfer, immer Opfer, Jusletter del 13 luglio 2009, n. 35; MICHEL DUPUIS ET AL., Code pénal, Petit commentaire, 2a ed. 2017, n. 6 ad art. 135 CP; JEAN-CHRISTOPHE CALMES, La pornographie et les représentations de la violence en droit pénal, 1997, pag. 83 segg.).  
 
4.1.2. Per atti di violenza ai sensi dell'art. 135 CP s'intendono gli atti di violenza fisica (HAGENSTEIN, op. cit., n. 22 ad art. 135 CP; ANDREAS DONATSCH, in StGB, JStG: Kommentar, 21 a ed. 2022, n. 2 ad art. 135 CP [in seguito solo Kommentar]; lo stesso, Delikte gegen den Einzelnen, Strafrecht III, 11 a ed. 2018 [in seguito solo Strafrecht III], pag. 92; STRATENWERTH/BOMMER, op. cit., § 4 n. 100; RIEDO/LOGNOWICZ, op. cit., n. 37; MARCO BUNDI, «Zombie»-Filme im Lichte von Art. 135 StGB, Jusletter del 25 settembre 2006, n. 36; HANS SCHULTZ, Die Delikte gegen Leib und Leben nach der Novelle 1989, RPS 108/1991 pag. 413). Per una parte della dottrina, essi comprendono anche la violenza psichica, quanto meno nella misura in cui induca la vittima a infliggersi della violenza fisica (TRECHSEL/MONA, op. cit., n. 4 ad art. 135 CP; JOSÉ HURTADO POZO, Droit pénal, Partie spéciale, 2009, n. 717; URSULA CASSANI, Les représentations illicites du sexe et de la violence, RPS 111/1993 pag. 443; DANIEL GERNY, Zweckmässigkeit und Problematik eines Gewaltdarstellungsverbotes im schweizerischen Strafrecht, 1994, pag. 118).  
 
La violenza dev'essere cruda ( grausame Gewalttätigkeiten; actes de cruauté), deve in altre parole causare alla vittima sofferenze fisiche e/o morali particolarmente intense per il modo in cui è esercitata, per la sua durata o per la sua ripetizione. Trattasi delle forme estreme della violenza, di brutalità nell'accezione stretta del termine (FF 1985 I 937, n. 214.9). La dottrina di lingua tedesca ricorre del resto proprio al termine Brutalo in relazione all'art. 135 CP (v. ad esempio FRANZ RIKLIN, Sinn und Problematik einer «Brutalonorm» im Strafgesetzbuch, in Das Menschenbild im Recht, 1990, pagg. 405 segg.; DANIEL KOLLER, Cybersex, Die strafrechtliche Beurteilung von weicher und harter Pornographie im Internet unter Berücksichtigung der Gewaltdarstellungen, 2007, pagg. 357 segg.; STRATENWERTH/BOMMER, op. cit., § 4 n. 90; HAGENSTEIN, op. cit., ad art. 135 CP; GERNY, op. cit., pagg. 23 seg.). La brutalità è per definizione una violenza inumana, bestiale (GIACOMO DEVOTO ET AL., Nuovo Devoto-Oli; il vocabolario dell'italiano contemporaneo, 2017), e presuppone, secondo quanto precisato dal legislatore, che l'autore sia alieno da qualsiasi forma di emozione umana (FF 1985 I 937, n. 214.9).  
Gli atti di cruda violenza possono essere diretti contro esseri umani o animali ai sensi della legge federale del 16 dicembre 2005 sulla protezione degli animali (LPAN; RS 455 [FF 1985 II 938, n. 214.9]). 
 
4.1.3. Perché sia punibile la rappresentazione deve mostrare gli atti di cruda violenza con insistenza ( eindringlich; avec insistance). Dev'essere, in altre parole, suscettibile di rimanere impressa nella coscienza dell'osservatore. Affinché ciò sia il caso, non occorre necessariamente che sia lunga o reiterata, una rappresentazione unica, se intensa, potendo bastare (FF 1985 II 937, n. 214.9). Trattasi di un elemento qualitativo più che quantitativo (DUPUIS ET AL., op. cit., n. 8 ad art. 135 CP) riferito all'effetto della rappresentazione di atti di cruda violenza sull'osservatore (HAGENSTEIN, op. cit., n. 28 ad art. 135 CP; CASSANI, op. cit., pag. 444). La rappresentazione dev'essere sufficientemente realistica e suggestiva da penetrare profondamente nella sua coscienza (JEAN-PAUL ROS, in Commentaire romand, Code pénal II, 2017, n. 51 ad art. 135 CP; DONATSCH, Strafrecht III, pag. 92; CORBOZ, op. cit., n. 7 ad art. 135 CP; GERNY, op. cit., pagg. 123 segg.), poco importa che sia vera o una messinscena (BUNDI, op. cit., n. 50; HAGENSTEIN, op. cit., n. 29 ad art. 135 CP). L'insistenza può risultare da accorgimenti stilistici, segnatamente dall'enfatizzazione di particolari dettagli, da ingrandimenti, primi piani o ripetizioni (TRECHSEL/MONA, op. cit., n. 7 ad art. 135 CP; SCHULTZ, op. cit., pag. 414). La natura non o poco professionale della rappresentazione non esclude l'insistenza giusta l'art. 135 CP (RIEDO/ LOGNOWICZ, op. cit., n. 38; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 8 ad art. 135 CP; TRECHSEL/MONA, op. cit., n. 7 ad art. 135 CP; HAGENSTEIN, op. cit., n. 29 ad art. 135 CP).  
L'insistenza richiesta dall'art. 135 CP è in ogni caso data se è necessario un livello particolare di insensibilità per reggere dinanzi alla rappresentazione di atti di cruda violenza (STRATENWERTH/BOMMER, op. cit., § 4 n. 100; BUNDI, op. cit., n. 52; RIEDO/LOGNOWICZ, op. cit., n. 38). 
 
4.1.4. Gli atti di cruda violenza raffigurati devono inoltre offendere gravemente la dignità umana ( schwere Verletzung der elementaren Würde des Menschen; grave atteinte à la dignité humaine). Tale esigenza, assente nel disegno di legge, è stata introdotta in occasione del dibattito parlamentare, al fine di delimitare con maggiore precisione il genere di violenza oggetto delle rappresentazioni punibili giusta l'art. 135 CP (CALMES, op. cit., pag. 116; CASSANI, op. cit., pag. 444).  
Sussistono divergenze dottrinali su quale sia la dignità umana che dev'essere offesa. Alcuni autori ritengono sia quella delle persone oggetto delle rappresentazioni, carnefici come vittime (SCHULTZ, op. cit., pag. 414; RIKLIN, op. cit., pag. 421). Per altri, invece, è quella dell'osservatore (TRECHSEL/MONA, op. cit., n. 8 ad art. 135 CP). Per altri autori ancora, la dignità umana menzionata dall'art. 135 CP è piuttosto un concetto astratto da intendersi quale dignità dell'umanità intera, del genere umano (CASSANI, op. cit., pag. 445; BARRELET/WERLY, Droit de la communication, 2 a ed. 2011, n. 1299 pag. 394; MARKUS KERN, Kommunikationsgrundrechte als Gefahrenvorgaben, 2012, pagg. 180 seg.). NIGGLI, infine, sostiene che l'art. 135 CP si riferisca impropriamente alla nozione di dignità umana, perché le rappresentazioni di atti di cruda violenza offendono di fatto il rispetto per la vita e la nostra fondamentale avversione verso comportamenti violenti e crudeli nei confronti della vita (MARCEL ALEXANDER NIGGLI, Rassendiskriminierung, Ein Kommentar zu Art. 261bis StGB und Art. 171c MStG, 2a ed. 2007, n. 405 e 407).  
In modo quasi unanime la dottrina ritiene che, laddove gli atti di violenza siano crudi e mostrati con insistenza, sia sempre data anche la grave offesa alla dignità umana e che pertanto questa esigenza legale non abbia alcuna portata pratica (SCHULTZ, op. cit., pag. 414; DONATSCH, Strafrecht III, pag. 92; lo stesso, in Kommentar, n. 5 ad art. 135 CP; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 9 ad art. 135 CP; HURTADO POZO, op. cit., n. 719; RIEDO/LOGNOWICZ, op. cit., n. 39 ad art. 135 CP; contra : BUNDI, op. cit., n. 73), traducendo in realtà la volontà del legislatore di limitare la punibilità alle sole rappresentazioni abominevoli prive di qualsiasi giustificazione (BARRELET/WERLY, op. cit., n. 1299 pag. 394; GERNY, op. cit., pag. 135), espressioni insopportabili di un disprezzo estremo per la vita o la sofferenza degli esseri umani o degli animali (CORBOZ, op. cit., n. 4 ad art. 135 CP; ROS, op. cit., n. 46 ad art. 135 CP).  
 
4.1.5. Le rappresentazioni devono infine essere prive di qualsiasi valore culturale o scientifico degno di protezione. Questa condizione è volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali, tra cui in particolare la libertà d'opinione e d'informazione (art. 16 Cost.), la libertà della scienza (art. 20 Cost.) o ancora la libertà artistica (art. 21 Cost.) (DUPUIS ET AL., op. cit., n. 10 ad art. 135 CP; ROS, op. cit., n. 63 ad art. 135 CP; GERNY, op. cit., pag. 128).  
Rivestono un valore culturale le rappresentazioni che, senza glorificare né minimizzare la violenza, sono volte a illustrare, in modo da prevenire, le conseguenze della violenza individuale o collettiva e a suscitare o rafforzare il senso critico dell'osservatore. Per disporre di un valore scientifico, invece, le rappresentazioni della violenza devono essere indispensabili all'insegnamento o alla ricerca (FF 1985 II 938, n. 214.9; sentenza 6B_954/2019 del 20 maggio 2020 consid. 1.4.3). 
Il termine culturale dev'essere inteso nel suo senso più ampio (BARRELET/WERLY, op. cit., n. 1299 pag. 394; TRECHSEL/MONA, op. cit., n. 11 ad art. 135 CP; SCHULTZ, op. cit., pag. 414; GERNY, op. cit., pag. 129; HURTADO POZO, op. cit., n. 720). Hanno dunque un valore degno di protezione in particolare le rappresentazioni di natura artistica, storica o documentaristica che si confrontano in modo critico con il fenomeno della violenza (DONATSCH, Strafrecht III, pag. 92; lo stesso, in Kommentar, n. 6 ad art. 135 CP; RIEDO/LOGNOWICZ, op. cit., n. 36; ROS, op. cit., n. 65 ad art. 135 CP; v. pure DTF 131 IV 64 consid. 10.1.3). Non sono per contro degne di protezione le rappresentazioni che costituiscono un'apologia di atti di cruda violenza, che li banalizzano o che sono destinate unicamente al divertimento o all'intrattenimento (DUPUIS ET AL., op. cit., n. 11 ad art. 135 CP), come pure le rappresentazioni della violenza fine a sé stessa, che si limitano a mostrare la cruda violenza, senza affrontarne il significato e le conseguenze o indurre l'osservatore a farlo (DONATSCH, Strafrecht III, pagg. 92 seg.; RIKLIN, op. cit., pag. 424).  
 
4.1.6. Tra i molteplici comportamenti punibili ( Tathandlung), l'art. 135 CP contempla segnatamente quello di esporre e quello di rendere accessibile. Esporre significa presentare a terzi in modo duraturo, mentre rendere accessibile significa conferire ad altri la possibilità di vedere la rappresentazione, ciò che può avvenire anche mediante Internet (HAGENSTEIN, op. cit., n. 57 e 61 ad art. 135 CP; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 14 ad art. 135 CP; ROS, op. cit., n. 22 e 25 ad art. 135 CP; CORBOZ, op. cit., n. 20, 23 e 24 ad art. 135 CP; CALMES, op. cit., pagg. 189 segg. e 193 segg.).  
 
4.1.7. Sotto il profilo soggettivo, la rappresentazione di atti di cruda violenza è un reato intenzionale e il dolo eventuale è sufficiente (HAGENSTEIN, op. cit., n. 72 ad art. 135 CP; TRECHSEL/MONA, op. cit., n. 11b ad art. 135 CP; BUNDI, op. cit., n. 78; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 19 ad art. 135 CP). Perché vi sia intenzione, non è necessario che l'autore comprenda gli elementi costitutivi dell'infrazione nel loro esatto senso giuridico, essendo sufficiente che valuti in modo pertinente il loro significato sociale e che si rappresenti la fattispecie secondo le consuete concezioni di un profano ( Parallelwertung in der Laiensphäre; DTF 129 IV 238 consid. 3.2.2; ROS, op. cit., n. 73 ad art. 135 CP; STRATENWERTH/BOMMER, op. cit., § 4 n. 108; DONATSCH, Strafrecht III, pag. 95; CORBOZ, op. cit., n. 29 ad art. 135 CP).  
 
4.2. È stato accertato che il profilo Facebook del ricorrente era di suo uso esclusivo e da lui unicamente gestito. I suoi oltre 260 "amici" potevano accedere liberamente ai contenuti pubblicati e condivisi sul suo account, come pure gli utenti esterni alla cerchia di "amici". L'insorgente ha condiviso sul suo profilo cinque filmati, oggetto del presente procedimento.  
Il primo, condiviso il 3 dicembre 2016, ritrae una persona scaraventata a terra e poi colpita ripetutamente con un oggetto contundente da un uomo in tuta mimetica, si sentono il suono dei colpi inferti, delle risate e le voci di incitamento degli astanti. Poi, alcuni individui, quasi tutti in tuta mimetica, aggrediscono con pugni e calci la vittima ancora a terra e un uomo tiene sollevato uno pneumatico, che sembra gettare sulla vittima. Il video, dalla mediocre qualità delle immagini e dal nitido audio, dura 1 minuto e 1 secondo e si riduce nel ritrarre atti di violenza di più persone ai danni di un uomo a terra, inerme, incapace di alzarsi e di reagire, che urla per le sofferenze inflittegli. Esso è corredato di una didascalia in lingua turca che recita «Chi ha un po' di pietà nel cuore deve condividere. I soldati "maiali" di Assad usano violenza contro il popolo ad Aleppo, dove ha conquistato nuove terre». 
Il secondo filmato, condiviso il 18 gennaio 2017, mostra parecchie persone a torso nudo, vestite unicamente con biancheria intima, bendate, rispettivamente incappucciate, alcune a piedi nudi, immobilizzate in fila indiana con le mani legate sopra la testa a un supporto. Un uomo passa e accosta una fiamma alla schiena, o al viso, rispettivamente alla nuca delle persone legate. Si sentono delle urla. Altre persone, alcune in tuta mimetica, si avvicinano agli uomini legati. Qualcuno tiene una candela accesa sopra questi ultimi, con la fiamma verso il basso, in modo da far colare la cera bollente sulla loro schiena. Si osserva inoltre un aggressore colpire più vittime al torso con quella che sembra essere una spranga, nonché una vittima che si contorce dal dolore per i colpi inferti con un'arma non ben distinguibile da un aggressore che indossa i pantaloni mimetici. Gli atti di violenza sono perpetrati su più vittime, che vengono torturate in vari modi una dopo l'altra. Il video, della durata di 2 minuti e 17 secondi, è accompagnato dalla seguente didascalia redatta in turco: «Ad Arakan gli atei buddisti fanno tortura al popolo musulmano. Se non potete fermare la violenza almeno annunciate/fate sapere a tutti. Questo è il profeta Ali». 
Il terzo filmato, condiviso il 27 gennaio 2017, ha una durata di circa 20 secondi ed è privo di audio. Mostra un ragazzo seminudo, appeso a una corda, con tutti gli arti legati dietro la schiena, gomiti e caviglie legati fra loro, e un pezzo di stoffa intorno al collo. Sul deretano del giovane è collocato un mattone e, all'inizio del filmato, una persona si trova in piedi sul mattone per poi scendere a terra. Si osserva poi una terza persona che con il piede dà uno scossone al ragazzo legato e lo fa dondolare. Questa tortura ha richiesto tempo, preparativi e impegno, di cui le immagini sono solo il risultato. Anche in questo caso, al filmato è accostata una didascalia in turco che recita: «Qui Arakan!! Chi rimane silenzioso a questa crudeltà è un diavolo senza lingua. Condividiamo per favore, non rimaniamo silenziosi contro questa crudeltà. Preghiamo per il nostro fratello musulmano». 
Quanto al quarto filmato, condiviso il 17 febbraio 2017, è composto da più scene di esecuzioni sommarie di civili disarmati, perpetrate con fucili d'assalto da soggetti che indossano tuta mimetica e casco. Si sentono perfettamente i colpi delle armi e in sottofondo una persona che canta. Nella prima scena, in quella che pare essere un'imboscata, sotto la minaccia dei fucili d'assalto, quattro uomini vengono fatti scendere da un'automobile e tenuti in ostaggio. Con le mani alzate sopra la testa e il capo chino, vengono fatti disporre l'uno accanto all'altro, con lo sguardo rivolto verso gli aggressori. Uno di questi spara un colpo a ciascuno di loro e un altro aggressore finisce le vittime con una raffica di colpi di fucile automatico. La seconda scena si situa all'interno di un'abitazione, dove tre vittime, di cui due tengono le mani sopra la testa, vengono fucilate. Nella terza scena, alla fine del video, un uomo, una donna e un bambino escono da un'abitazione con le mani alzate sopra la testa, sotto la minaccia dei fucili d'assalto, e si dispongono uno accanto all'altro con lo sguardo rivolto verso gli aggressori. Il filmato dura 43 secondi e riporta una didascalia in turco del seguente tenore: «La nostra rotta è Israele. Il nostro peso è inferno. Attacchi selvaggi da parte dell'America in Irak. Stragi senza distinguere donne e bambini». 
Il quinto filmato è stato condiviso il 22 febbraio 2017 e dura 54 secondi. Mostra una persona, verosimilmente un ragazzo, esile e minuta, supina a terra, immobilizzata con la schiena a terra e le gambe rialzate da almeno cinque aggressori. Uno di questi blocca il torace della vittima con una gamba, mettendosi quasi a cavalcioni sul suo petto, e con una mano le tiene schiacciato il viso a terra. Gli altri aggressori immobilizzano tutto il corpo della vittima, bloccando la sua gamba sinistra in posizione rialzata per permettere loro di colpirla a turno con un oggetto contundente con l'evidente scopo di recidere l'arto. Nonostante la qualità delle immagini non sia eccellente, alla fine del filmato è ben visibile una ferita aperta. Sono perfettamente udibili la forza e l'intensità dei colpi inferti tra le voci concitate degli aggressori. Questa volta la didascalia è redatta in arabo e recita: «dove sono i sovrani della terra, dove sono i loro re e dove sono i diritti umani. Si prega di partecipare a finché la pubblicazione raggiunge il livello più alto. Si prega di seguire la pagina personale del profilo». 
 
4.3. Il ricorrente non contesta che i filmati appena descritti siano delle rappresentazioni ai sensi dell'art. 135 cpv. 1 CP (v. supra consid. 4.1.1), né che mostrino atti di cruda violenza verso esseri umani (v. supra consid. 4.1.2). Ritiene tuttavia che difetterebbero del carattere insistente esatto dalla norma. Osserva che nei filmati, di brevissima durata, la violenza sarebbe solo intuibile a causa del montaggio, della scarsa qualità e dei tagli. Non sarebbe quindi tale da rimanere impressa nella coscienza dell'osservatore. A torto. Tale posizione, già difesa dinanzi alla Corte di appello, è stata da questa definita addirittura al limite della temerarietà.  
Malgrado la mediocre qualità delle immagini, come rilevato dalla Corte di appello, la violenza è ben visibile e la loro visione colpisce profondamente la coscienza dell'osservatore, provocando un senso di disgusto e di orrore. Oltre a essere realistici, i filmati risultano pertanto pure suggestivi (v. in proposito GERNY, op. cit., pagg. 125 segg., in particolare pag. 127). L'insistenza poi non presuppone necessariamente una lunga rappresentazione (v. supra consid. 4.1.3), di modo che anche brevi filmati come quelli in esame possono adempiere gli elementi costitutivi dell'art. 135 CP, tanto più se si riducono, per tutta la loro durata, a mostrare atti di cruda violenza. Questi atti peraltro sono perfettamente distinguibili. Nella fattispecie, inoltre, alla forza già di per sé sufficiente delle immagini si aggiunge, per alcuni dei filmati, anche quella dell'audio, con le urla delle vittime e il rumore delle percosse e dei colpi inflitti loro, rispettivamente degli spari. Le stesse dichiarazioni rilasciate dall'insorgente e citate nella sentenza impugnata comprovano poi il carattere insistente delle rappresentazioni. Egli ha infatti affermato che «si sta male quando si guarda un video del genere», rispettivamente «già guardando questo video non stavo bene». Ed effettivamente la visione dei filmati è difficilmente sostenibile.  
 
4.4. L'insorgente sostiene che i filmati da lui condivisi avrebbero un valore culturale, arbitrariamente negato dalla Corte di appello in urto all'evidenza. La violenza immortalata nei filmati non sarebbe mai stata minimizzata o glorificata dal ricorrente e neppure dagli "ignoti autori dei post originali". Sarebbe al contrario stata esplicitamente "condannata e condivisa solamente per denunciare tali oscenità". La Corte di appello avrebbe omesso di procedere a un vero esame delle didascalie che accompagnavano i filmati, visibili a tutti e tradotte automaticamente da Facebook. Le didascalie avrebbero esortato esplicitamente a condividere i filmati al fine di denunciare le ingiustizie e le violenze subite dalle vittime. In simili circostanze, i video non potrebbero essere considerati delle rappresentazioni di cruda violenza fine a sé stessa, essendo piuttosto "paragonabili ad un reportage su fatti realmente accaduti di portata ed interesse generale, potenzialmente utili a formare le opinioni su importanti problematiche d'attualità". Considerato il loro valore informativo e documentaristico, i filmati sarebbero degni di protezione e quindi non punibili.  
I filmati in quanto tali non hanno alcun carattere documentaristico. Come già rilevato dall'istanza precedente, dalla loro visione si desume piuttosto che l'intento di chi li ha realizzati fosse di condividere e incitare alla brutalità. Sono infatti avulsi da qualsiasi contesto geografico, politico, rispettivamente storico. Le didascalie che le corredano non colmano in nessun modo l'assenza di tale contestualizzazione, non apportano alcun chiarimento o analisi. Forniscono unicamente indicazioni estremamente vaghe ("soldati maiali di Assad", "Aleppo", "Arakan", "attacchi selvaggi da parte dell'America in Irak"), ben lungi da costituire anche solo un abbozzo di spiegazione. Non vi è alcun confronto critico con la violenza, i suoi autori, le loro vittime o le ragioni di quanto ripreso. L'osservatore è abbandonato alla mercé di immagini brutali prive della benché minima funzione informativa o anche solo di un potenziale informativo, e quindi assolutamente incapaci di "formare le opinioni su importanti tematiche d'attualità", di denunciare ingiustizie, rispettivamente sensibilizzare sulle violenze perpetrate. La Corte di appello ha del resto osservato come le didascalie tendono in sostanza a rendere i filmati "virali", incitando alla condivisione con il maggior numero di persone possibili. In definitiva tali filmati non hanno alcun valore culturale degno di protezione ai sensi dell'art. 135 cpv. 1 CP, neppure alla luce delle relative didascalie. E nulla muta al riguardo il fatto che l'insorgente non abbia minimizzato né glorificato gli atti di cruda violenza ivi contenuti. 
 
4.5. Secondo il ricorrente, condividendo i filmati sul suo profilo Facebook, non li avrebbe esposti, né resi accessibili. Le immagini infatti sarebbero state pubblicate da altre persone, circolando già liberamente in Internet.  
L'insorgente si limita a ribadire quanto sostenuto dinanzi alla Corte di appello, senza tuttavia confrontarsi con le argomentazioni dell'autorità precedente e spiegare perché violerebbero il diritto su questo punto, affermando unicamente di non considerarle convincenti. La censura pone seri problemi di ammissibilità (v. art. 42 cpv. 2 LTF). Sia come sia, la tesi difensiva non ha pregio. È infatti possibile rendere accessibili rappresentazioni già rese accessibili in passato o altrove ed è punibile ogni nuova possibilità offerta di prenderne visione e quindi ogni comportamento teso a renderle nuovamente o altrove accessibili (v. KOLLER, op. cit., pag. 127). Quand'anche i filmati circolassero già liberamente in Internet, circostanza peraltro non accertata (art. 105 cpv. 1 LTF), condividendoli su Facebook, di fatto il ricorrente li ha esposti e resi direttamente accessibili sul suo profilo a tutti i suoi "amici" nonché agli utenti esterni. Ha quindi creato in qualche sorta un accesso supplementare a tali filmati, contribuendo potenzialmente pure alla loro diffusione. Orbene, l'art. 135 cpv. 1 CP mira proprio a sanzionare la proliferazione di rappresentazioni di atti di cruda violenza (HURTADO POZO, op. cit., n. 714). La giurisprudenza ha del resto già avuto modo di stabilire che la condivisione di contenuti sui social network può condurre a una loro migliore visibilità e quindi alla loro diffusione e perfino alla loro viralità grazie alle connessioni su vasta scala all'interno dei social network (DTF 146 IV 23 consid. 2.2.4).  
 
4.6. Per quanto concerne l'aspetto soggettivo del reato, il ricorrente adduce di non aver mai avuto l'intenzione di condividere filmati senza alcun valore degno di protezione. Convinto del loro valore informativo, accogliendo l'invito a condividere i video, egli avrebbe voluto partecipare a un atto pubblico di denuncia degli autori e dei responsabili delle atrocità e dimostrare solidarietà alle vittime. Di fronte alle spregevoli barbarità, non sarebbe riuscito a "restare in silenzio [...] come un diavolo senza lingua", ma si sarebbe voluto schierare, dedicando "un suo click al rafforzamento di una serie di atti di denuncia". Le considerazioni della Corte di appello, per cui determinate immagini piacciono all'insorgente che le detiene per sé e le mette a disposizione di terzi, fondate sulle immagini rinvenute nella memoria cache e su una frase estrapolata da intercettazioni telefoniche e ambientali, mai contestategli, sarebbero arbitrarie, lesive del diritto di essere sentito, contrarie al principio accusatorio e confermerebbero l'impressione di un atteggiamento prevenuto all'origine della sua istanza di ricusa.  
 
4.6.1. Secondo gli accertamenti della sentenza impugnata, l'insorgente sapeva che, condividendo determinati contenuti, li metteva a disposizione perlomeno della sua cerchia di "amici" Facebook e che ciò poteva condurre a una diffusione virale dei contenuti condivisi. Egli ha inoltre dichiarato di aver condiviso i filmati per mostrare agli "amici" la violenza perpetrata e per denunciarla. Per la Corte di appello, egli sapeva pertanto che i filmati rappresentavano con insistenza atti di cruda violenza e voleva renderli accessibili in modo che terze persone potessero prenderne visione. Ciò posto, l'autorità precedente ha escluso l'esistenza di un errore sui fatti invocato in relazione al valore degno di protezione dei filmati condivisi. Le dichiarazioni del ricorrente, che adduceva di aver agito con lo scopo di denunciare la violenza e di prevenirla, sono state ritenute inverosimili dalla Corte di appello e mere declamazioni, perché mai seguite da fatti volti all'effettiva denuncia e prevenzione della violenza, foss'anche un semplice cenno di dissenso rispetto alla brutalità delle rappresentazioni. L'insorgente seguiva anzi diverse pagine promoventi immagini cruente, nella memoria cache dei suoi dispositivi essendo state trovate immagini di persone armate, decedute o ferite. La Corte di appello ha poi rilevato che, nelle registrazioni ambientali, riferendosi a una persona che aveva commesso degli insulti blasfemi, egli ha affermato che la sua morte era necessaria, posizione incompatibile con il professato intento di prevenire la violenza. L'autorità precedente ha inoltre aggiunto che, tenuto conto del pubblico al quale il ricorrente ha esposto i filmati, il suo profilo essendo accessibile anche ai suoi figli minorenni, ossia soggetti che il legislatore voleva specificatamente tutelare, egli doveva e poteva prendere in considerazione una percezione dei video condivisi differente dalla sua. La loro diffusione, continua la Corte di appello, senza avvertenze di sorta sul loro contenuto scioccante e deprecabile, contravviene alle concezioni etiche e morali della società moderna e l'insorgente, benché privo di una formazione giuridica, aveva potuto presumere che, per l'utente comune del social network, tali filmati non avevano alcun interesse culturale. Sicché, concludono i giudici precedenti, il ricorrente ha "realizzato, perlomeno con dolo eventuale, anche l'assenza di scopo culturale".  
 
4.6.2. Contestata è unicamente l'intenzione con riferimento al valore dei filmati condivisi. In sostanza al riguardo il ricorrente si prevale di un errore sui fatti, adducendo la sua convinzione del valore informativo dei filmati da lui condivisi.  
Giusta l'art. 13 cpv. 1 CP, chiunque agisce per effetto di una supposizione erronea delle circostanze di fatto è giudicato secondo questa supposizione, se gli è favorevole. È in preda a un errore sui fatti colui che non ha conoscenza di un elemento costitutivo di un reato o che si fonda su un'idea erronea di quest'ultimo. L'errore sui fatti esclude l'intenzione (DTF 129 IV 238 consid. 3.1). 
Dell'asserita convinzione del valore informativo dei filmati in questione non vi è traccia negli accertamenti della sentenza impugnata, senza che sia al riguardo sostanziato arbitrio di sorta. I filmati in quanto tali non forniscono informazioni sugli autori, le vittime e le cause, rispettivamente le ragioni degli atti di cruda violenza ripresi. Quanto alle didascalie si limitano a indicazioni di un'approssimazione estrema ben lungi dal fornire le informazioni assenti nei filmati e dal conferire al tutto un carattere documentaristico. Rilevasi peraltro che il filmato più cruento riporta una didascalia redatta in arabo, lingua che, secondo quanto accertato, il ricorrente non comprende. In simili circostanze non si scorge e l'insorgente non spiega come potesse credere al preteso valore informativo dei filmati. Quanto poi al suo intento di condividere i filmati per denunciarne la violenza, e quindi di renderli accessibili in un'ottica culturale, non trova ancora una volta riscontro nei fatti accertati, che vincolano questo Tribunale (art. 105 cpv. 1 LTF). La Corte di appello ha al contrario ritenuto inverosimile tale posizione, perché ai proclami non sono mai seguiti fatti, l'insorgente essendosi limitato a condividere i filmati con le scarne didascalie, senza aggiungere commenti al fine di sensibilizzare gli utenti alla violenza o di prevenirla e senza neppure selezionare le persone a cui rendeva accessibili i filmati. La sua asserita volontà di prevenire la violenza è stata peraltro ritenuta incompatibile con le differenti pagine promoventi immagini cruenti che il ricorrente seguiva, rispettivamente con la sua posizione rispetto a una persona rea di insulti blasfemi di cui riteneva necessaria la morte. Questi elementi non sono censurati, l'insorgente osserva tuttavia che non gli sarebbero mai stati contestati e lamenta una violazione del diritto di essere sentito e del principio accusatorio. Sennonché, anche su questo aspetto, non motiva oltre le sue critiche, che risultano pertanto inammissibili (art. 42 cpv. 2 e art. 106 cpv. 2 LTF). Rilevasi unicamente che egli non nega che tali elementi emergano dall'incarto e neppure di aver avuto accesso a tutti gli atti del procedimento. Quanto poi al principio accusatorio, si osserva che egli non è stato condannato per qualcosa di diverso da quanto circoscritto nel decreto d'accusa, ciò che nemmeno è insinuato nel gravame. 
Alla luce di quanto esposto, non v'è spazio per riconoscere un errore sui fatti ai sensi dell'art. 13 CP e a ragione la Corte di appello ha ritenuto realizzato anche l'aspetto soggettivo del reato di rappresentazione di atti di cruda violenza. 
 
4.7. Il ricorrente sostiene poi che, se avesse saputo che fosse vietato condividere quel tipo di filmati, egli, persona scarsamente istruita, non lo avrebbe fatto. Non è infatti pensabile che "chi sa di commettere un reato tramite Internet", lo faccia per mezzo di un profilo Facebook con il proprio nome e cognome. Dovrebbe pertanto in ogni caso essere posto al beneficio di un errore sull'illiceità giusta l'art. 21 CP.  
 
4.7.1. La Corte di appello ha constatato l'assenza agli atti di elementi che inducano a ritenere che l'insorgente avesse delle ragioni sufficienti per credere alla liceità del suo agire. Costituisce infatti un fatto notorio che non possano essere diffuse rappresentazioni di atti di cruda violenza e la dignità umana come pure l'integrità fisica, lese da tali atti, sono dei valori fondamentali non solo alle nostre latitudini, ma anche a livello globale. L'insorgente, continua l'autorità precedente, aveva piena consapevolezza della cruda violenza mostrata nei filmati condivisi. Essa ha inoltre osservato che la condivisione di questi filmati non era suscettibile di realizzare il proposito di opporsi alla violenza, opposizione impostagli dalla sua fede. Per la Corte di appello, una persona coscienziosa e di buon senso e contraria alla violenza mai avrebbe condiviso sul proprio profilo Facebook filmati di questa natura. Il ricorrente ha certamente realizzato che la condivisione di filmati di cruda violenza era contraria alle regole generalmente ammesse nella nostra società. I giudici precedenti hanno quindi negato la sussistenza di qualsiasi errore sull'illiceità, avendo l'insorgente agito con coscienza del carattere illecito dei propri atti.  
 
 
4.7.2. In virtù dell'art. 21 CP, chiunque commette un reato non sapendo né potendo sapere di agire illecitamente non agisce in modo colpevole. Se l'errore era evitabile, il giudice attenua la pena. L'errore sull'illiceità concerne il caso in cui l'autore agisce con la consapevolezza di tutti gli elementi costitutivi del reato, e quindi con intenzione, ma crede erroneamente di agire in modo lecito. Perché sia realizzato un errore sull'illiceità, occorre che l'autore non sappia, né possa sapere che il suo comportamento è illecito. Egli deve agire credendosi legittimato a farlo. Egli pensa quindi a torto che l'atto concretamente commesso sia conforme al diritto. Determinare ciò che l'autore sapeva, credeva o voleva e, in particolare, l'esistenza di un errore è una questione che concerne l'accertamento dei fatti, sindacabile dinanzi al Tribunale federale sotto il ristretto profilo dell'arbitrio (DTF 148 IV 298 consid. 7.6; 141 IV 336 consid. 2.4.3). Per escludere l'errore sull'illiceità, è sufficiente che l'autore abbia avuto, o avrebbe dovuto avere, la sensazione di fare qualcosa di contrario a ciò che si deve (DTF 129 IV 6 consid. 4.1). In generale, l'ordinamento giuridico ricalca i valori etici predominanti, nel senso che le trasgressioni rilevanti a tali valori sono disapprovate anche sotto il profilo legale. La sensazione dell'autore di agire in contrasto con le norme morali prevalenti costituisce un'indicazione importante in merito alla sua consapevolezza dell'illiceità della sua condotta (DTF 104 IV 217 consid. 2).  
Il ricorrente si prevale di un errore sull'illiceità, argomentando a ruota libera, senza confrontarsi con le argomentazioni della Corte di appello e in particolare con i fatti da essa accertati. Non censura alcun arbitrio al riguardo. Orbene, l'autorità precedente ha ritenuto che egli ha agito con coscienza del carattere illecito dei propri atti. Trattasi di un accertamento di fatto che vincola questo Tribunale e che è sufficiente a escludere la sussistenza di un errore sull'illiceità e quindi l'applicazione dell'art. 21 CP
 
5.  
Il ricorrente censura infine la sua condanna fondata sull'art. 2 LAQ/SI. 
 
5.1. Il 1° gennaio 2015 è entrata in vigore la legge federale del 12 dicembre 2014 che vieta i gruppi «Al-Qaïda» e «Stato islamico» nonché le organizzazioni associate (RS 122). L'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI punisce con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria chiunque partecipa sul territorio svizzero a uno dei gruppi o a una delle organizzazioni vietati secondo l'art. 1 LAQ/SI, mette a disposizione risorse umane o materiale, organizza azioni propagandistiche a loro sostegno o a sostegno dei loro obiettivi, recluta adepti o promuove in altro modo le loro attività. Sono vietati giusta l'art. 1 LAQ/SI il gruppo «Al-Qaïda» (lett. a); il gruppo «Stato islamico» (lett. b) come anche i gruppi che succedono al gruppo «Al-Qaïda» o al gruppo «Stato islamico» o che operano sotto un nome di copertura nonché le organizzazioni e i gruppi che, per quanto riguarda condotta, obiettivi e mezzi, corrispondono al gruppo «Al-Qaïda» o al gruppo «Stato islamico» o operano su loro mandato (lett. c).  
La LAQ/SI è stata abrogata con effetto al 1° dicembre 2022 (RU 2022 602), e quindi posteriormente all'emanazione della sentenza impugnata. Il reato previsto dall'abrogato art. 2 LAQ/SI è ora punito dall'art. 74 cpv. 4 della legge federale del 25 settembre 2015 sulle attività informative (LAIn; RS 121), il cui tenore è identico con riferimento agli elementi costitutivi e alle pene comminate (v. DTF 148 IV 298 consid. 6.4.2), mentre i gruppi e le organizzazioni vietati sono designati dalla decisione generale del 19 ottobre 2022 concernente il divieto dei gruppi «Al-Qaïda» e «Stato islamico» nonché delle organizzazioni associate (FF 2022 2548) e corrispondono a quelli elencati all'art. 1 LAQ/SI a cui si aggiungono i gruppi che "propagano, sostengono o favoriscono in altro modo attività terroristiche o di estremismo violento facendo riferimento ad «Al-Qaïda» o allo «Stato islamico»". 
I fatti rimproverati all'insorgente sono stati commessi e giudicati sotto l'egida della LAQ/SI, ed è dunque su questa base che saranno esaminate le critiche ricorsuali (v. DTF 145 IV 137 consid. 2.6-2.8). 
 
5.2.  
 
5.2.1. L'art. 2 LAQ/SI sanziona tutte le attività, in Svizzera e all'estero, delle organizzazioni e dei gruppi vietati, nonché tutti gli atti che mirano a sostenerli materialmente o con risorse di personale. La norma si prefigge di tutelare la sicurezza pubblica prima ancora che siano commessi dei reati. La minaccia rappresentata dallo «Stato islamico» si manifesta in una propaganda aggressiva. Esiste il rischio che tale propaganda induca persone residenti in Svizzera a perpetrare attentati o ad aderire ad altre organizzazioni terroristiche. La disposizione penale opera uno spostamento a monte della punibilità, nella misura in cui punisce già il sostegno alle organizzazioni terroristiche vietate e la loro promozione (DTF 148 IV 398 consid. 4.8.3.2, 298 consid. 7.2).  
 
5.2.2. Tra i comportamenti incriminati dall'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI figurano, oltre alla partecipazione a gruppi o a organizzazioni vietati, diversi atti di sostegno, in particolare l'organizzazione di azioni propagandistiche (v. ANDREAS EICKER, Das Antreten eines Fluges nach Istanbul als strafbare Unterstützung oder Förderung des «Islamischen Staats»?, forumpoenale 5/2017 pag. 353).  
Seppur riferite a contesti diversi, le azioni propagandistiche sono punite anche da altre disposizioni del codice penale, segnatamente dall'art. 275 bis CP relativo alla propaganda sovversiva nonché dall'art. 261 bis cpv. 3 CP sulla discriminazione e l'incitamento all'odio, il cui tenore (organizzare azioni di propaganda; Propagandaaktionen organisieren; organiser des actions de propagande) può essere praticamente sovrapposto a quello dell'art. 2 LAQ/SI (rispettivamente dell'art. 74 cpv. 4 LAIn). Con riguardo alla nozione di propaganda delle citate norme del CP, sia il legislatore sia la dottrina si richiamano alla DTF 68 IV 145 relativa al decreto del Consiglio federale del 6 agosto 1940 che istituisce provvedimenti contro l'attività comunista od anarchica (Messaggio del 20 giugno 1949 a sostegno di un disegno di legge per la revisione parziale del Codice penale svizzero, FF 1949 I 629, Parte prima, n. II.6; Messaggio del 2 marzo 1992 concernente l'adesione della Svizzera alla Convenzione internazionale del 1965 sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale e la conseguente revisione del Codice penale, FF 1992 III 259, n. 636.1, nota a piè di pagina n. 139; NATHAN LANDSHUT, in Basler Kommentar, Strafrecht II, 4 a ed. 2019, n. 2 ad art. 275 bis CP; TRECHSEL/VEST, in Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 4 a ed. 2021, n. 2 ad art. 275 bis CP; THIERRY GODEL, in Commentaire romand, Code pénal II, 2017, n. 7 ad art. 275 bis CP; NIGGLI, op. cit., n. 1222 seg.; STRATENWERTH/BOMMER, Schweizerisches Strafrecht, besonderer Teil II, Straftaten gegen Gemeininteressen, 7 a ed. 2013, § 39 n. 35 e § 48 n. 12; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 40 ad art. 261 bis CP e n. 4 ad art. 275 bis CP). Non vi sono ragioni per non ritenere la stessa nozione di propaganda in relazione all'art. 2 LAQ/SI, ripresa anche dalla dottrina (v. LEU/PARVEX, Das Verbot der «Al-Qaïda» und des «Islamischen Staats», AJP 2016 pag. 762; EICKER, op. cit., pag. 355; PAJAROLA/OEHEN/THOMMEN, in Kommentar Kriminelles Vermögen - Kriminelle Organisationen, vol. II, 2018, n. 466 ad art. 260ter CP; MARA TODESCHINI, Terrorismusbekämpfung im Strafrecht, 2019, n. 76).  
Sotto il profilo oggettivo, la propaganda consiste in qualsiasi comportamento percettibile da altri, ad esempio tenere delle conferenze, prestare o distribuire degli scritti, esporre immagini, indossare distintivi e perfino semplici gesti. La propaganda non ingloba invece quei comportamenti che rimangono impercettibili ad altri, quali ad esempio il possesso occultato di scritti o la loro lettura. Sotto il profilo soggettivo, la propaganda presuppone, oltre alla consapevolezza della percettibilità di un comportamento da parte di altre persone, l'intento non solo di esprimere dei pensieri attraverso la propaganda, ma anche di farne la pubblicità, in altre parole di influenzare altri in modo che siano sedotti dai pensieri espressi o che, se già da questi conquistati, siano rafforzati nella loro convinzione (DTF 68 IV 145 consid. 2; v. pure DTF 140 IV 102 consid. 2.2.2). La propaganda designa quindi un atteggiamento della comunicazione (FF 1992 III 259, n. 636.1; NIGGLI, op. cit., n. 1233; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 40 ad art. 261 bis CP; LANDSHUT, op. cit., n. 2 ad art. 275 bis CP).  
Per organizzazione di azioni propagandistiche s'intende la loro pianificazione, preparazione ed elaborazione (NIGGLI, op. cit., n. 1233; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 41 ad art. 261bis CP; MIRIAM MAZOU, in Commentaire romand, Code pénal II, 2017, n. 33 ad art. 261bis CP). 
 
5.2.3. L'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI punisce altresì chiunque promuove in altro modo le attività dei gruppi o delle organizzazioni vietati. Questa clausola generale è destinata a sanzionare tutti gli atti che "consentono di perpetuare e promuovere le attività delle organizzazioni terroristiche vietate" (Messaggio del 22 novembre 2017 sulla proroga della legge federale che vieta i gruppi «Al-Qaïda» e «Stato islamico» nonché le organizzazioni associate, FF 2018 82 n. 2.2). La sua applicazione presuppone una certa attinenza dell'atto con le attività criminali dei gruppi o delle organizzazioni vietati (DTF 148 IV 298 consid. 7.2). Non è tuttavia necessario che l'atto sia direttamente teso a promuovere i reati violenti perpetrati dai gruppi vietati, la clausola generale dell'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI sanzionando esplicitamente qualsiasi forma di promozione delle attività di tali gruppi (DTF 148 IV 298 consid. 7.4).  
L'attività criminale dello «Stato islamico», in particolare, può essere promossa anche nel caso in cui una persona si lasci da esso influenzare così da diffondere, deliberatamente e in modo oggettivamente riconoscibile, la sua propaganda radicalizzante. Tra gli obiettivi dei gruppi terroristici figurano crimini commessi con una grande crudeltà, i cui video sono poi diffusi in tutto il mondo (DTF 148 IV 298 consid. 7.3). La propaganda digitale costituisce una parte integrante della strategia di organizzazioni quali lo «Stato islamico» (LEU/PARVEX, op. cit., pag. 762) 
 
5.2.4. Sotto il profilo soggettivo, il reato di cui all'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI è intenzionale. Il dolo eventuale è sufficiente (TODESCHINI, op. cit., n. 81; AJIL/LUBISHTANI, Le terrorisme djihadiste devant le Tribunal pénal fédéral, Jusletter del 31 maggio 2021, n. 71).  
 
5.3. È stato accertato che il 30 settembre 2016 il ricorrente ha condiviso, sulla sua pagina Facebook, un filmato di una durata complessiva di 41 secondi e di una buona qualità audio e video. Due persone in tuta mimetica sollevano un masso che viene poi scaraventato sulla testa di un uomo sdraiato a terra, sul fianco, con le mani dietro la schiena e il capo appoggiato su un sasso. Si percepisce il rumore dell'impatto, si vede la vittima che urla, emette gemiti e si contorce. L'inquadratura mostra dapprima la ferita alla testa della vittima e il sangue che cola dal suo orecchio, per poi concentrarsi sul sangue che fuoriesce a fiotti dal naso e dalla bocca della vittima, inondandole il viso. In sovrimpressione compare in seguito, per pochi secondi, l'immagine di un uomo. Viene poi ripreso il corpo della vittima insanguinata che esala gli ultimi respiri. Appare infine una scritta color fuoco su sfondo scuro, sul quale si intravvede il corpo della vittima. Durante tutto il filmato, si odono dei canti in sottofondo e si vede un simbolo a caratteri bianchi poi sostituito, per la durata di 17 secondi, da una bandiera nera con scritta bianca in arabo. A un certo momento nel video appare pure la scritta "Se punite, punite come siete stati puniti. La lapidazione di un politeist[a] houthi". L'audio del filmato permette di percepire una voce che invoca ripetutamente Allah e due gruppi di voci che in coro cantano simultaneamente frasi diverse, tra cui "lo abbiamo indottrinato - e con il suo diritto c'è speranza". Il filmato è accompagnato da una didascalia in arabo che recita "Guardate il nuovo metodo di esecuzione dell'ISIS. Condividete la pubblicazione prima che venga eliminata così tutto il mondo vede la delinquenza dell'ISIS. Sul serio meno di 18 anni non aprite il video".  
 
5.4. Sulla scorta della didascalia e del contesto complessivo (ambientazione, sottofondo musicale, condotta dei protagonisti, mezzi e modalità di esecuzione, presenza del vessillo nero con la scritta bianca, contesto storico), la Corte di appello ha stabilito la riconducibilità del filmato allo «Stato islamico», rilevandone inoltre la natura propagandistica, per nulla controbilanciata dalla relativa didascalia in lingua araba, priva peraltro di qualsiasi indicazione circa il contesto geografico, politico, storico e di qualsiasi distanziamento critico rispetto all'organizzazione. Per la Corte di appello, condividendo il filmato su Facebook, il ricorrente lo ha esposto e reso accessibile sulla propria bacheca, gli ha dato di fatto una maggiore visibilità e ne ha favorito la diffusione a catena e l'accessibilità al suo contenuto, facilitando così la veicolazione rapida e di massa sui social network del filmato e del relativo messaggio di propaganda jihadista. Ha qualificato tale comportamento come una "promozione in altro modo delle attività dei gruppi vietati", sussumendolo sotto la clausola generale dell'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI. Passando in rassegna tutta una serie di elementi fattuali, di dichiarazioni del ricorrente, di sue azioni e frequentazioni, di pagine Facebook da lui consultate e considerando la sua cultura e la sua devozione per la religione, i giudici precedenti hanno ritenuto che l'insorgente ha associato il filmato alla propaganda per lo «Stato islamico» e a ciò che avveniva nei territori da esso occupati, tema allora di attualità per tutta la comunità internazionale, compresa quella musulmana. Il ricorrente aveva poi una conoscenza sufficiente dei social network per sapere che, condividendo il filmato, lo metteva a disposizione di un numero indeterminato di persone e in ogni caso della sua cerchia di "amici", di modo che egli ha perlomeno preso in considerazione che avrebbe potuto facilitare la veicolazione rapida e di massa della propaganda ivi contenuta e quindi, ha concluso la Corte di appello, ha accettato il rischio di promuovere in altro modo le attività dello «Stato islamico», rafforzandone il potenziale. Egli ha pertanto agito con dolo eventuale.  
Di transenna la Corte di appello ha osservato come la condivisione di questo filmato riunisse anche tutti gli elementi della rappresentazione di atti di cruda violenza ai sensi dell'art. 135 CP e ha segnalato l'esistenza di controversie dottrinali in merito a un concorso ideale con il reato di cui all'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI. Non ha tuttavia ritenuto necessario pronunciarsi su questo punto alla luce del divieto della reformatio in peius, il tribunale di primo grado avendo considerato il reato di cui all'art. 135 CP in concreto assorbito da quello ex art. 2 LAQ/SI.  
 
5.5. Secondo il ricorrente, la riconducibilità del filmato allo «Stato islamico» non sarebbe manifesta, potendo essere attribuito a "qualsiasi gruppo di combattenti sul complicato scenario mediorientale". Al riguardo tuttavia la sua critica è lungi dal sostanziare una violazione del diritto, segnatamente del divieto dell'arbitrio in relazione all'accertamento di questo fatto (v. art. 97 cpv. 1 LTF). Non si confronta minimamente con i motivi che hanno condotto la Corte di appello alla conclusione contestata. In assenza di una motivazione sufficiente (art. 106 cpv. 2 LTF), non occorre quindi soffermarsi oltre su questo punto.  
 
5.6. Prevalendosi di una violazione del diritto di essere sentito, l'insorgente lamenta una carente motivazione della sentenza impugnata, nella misura in cui la Corte di appello non avrebbe spiegato come il filmato di "una barbara esecuzione" possa configurare una propaganda a favore dei suoi autori. Adottando l'ottica di uno spettatore non prevenuto, non sarebbe sostenibile ritenere che un filmato del genere sia suscettibile di condurre qualcuno a simpatizzare per gli spietati aguzzini, suscitando al contrario compassione per la vittima. Valutato poi nel suo insieme, in particolare alla luce della relativa didascalia di esplicita condanna, ignorata dalla Corte di appello, si dovrebbe definire il filmato contro e non pro «Stato islamico» e quindi "assolutamente inadatto a promuovere in alcun modo le attività di qualsivoglia organizzazione terroristica". Unicamente visionando il video originale, di cui il filmato condiviso dall'insorgente sarebbe solo un estratto, sarebbe evincibile la sua componente ideologica e propagandistica. In tali circostanze, il ricorrente sostiene che non sarebbero realizzati i presupposti oggettivi del reato.  
La Corte di appello ha ritenuto la natura propagandistica del filmato richiamandosi al rapporto della Polizia giudiziaria federale, dove sono dunque illustrate le ragioni di tale valutazione. Per costante giurisprudenza, la motivazione di una decisione può anche risultare da rinvii ad altri atti, sempre che la comprensione non ne sia ostacolata (DTF 141 V 557 consid. 3.2.1; v. pure sentenza 6B_122/2021 del 5 dicembre 2022 consid. 2.1). Ne segue che in concreto non sussiste alcuna violazione del diritto a una decisione motivata, quale aspetto del diritto di essere sentito. 
Ciò posto, lo stesso insorgente riconosce che il filmato ritrae una "barbara esecuzione". Tale descrizione appare invero un po' riduttiva e semplicistica. In realtà il filmato inscena con una nota di solennità, sottolineata dai canti di sottofondo e da una certa scenografia, due persone che giustiziano un uomo di fatto condannato a morte. E in effetti nel filmato compare poi la scritta - sottaciuta nel ricorso benché vi si reclami una valutazione d'insieme - che recita "Se punite, punite come siete stati puniti. La lapidazione di un politeist[a] houthi". Viene in tal modo glorificato un certo senso di "giustizia" dello «Stato islamico», ovvero quello che, alle nostre latitudini, si potrebbe definire una sorta di legge del taglione ( oculum pro oculo dentem pro dente). A ciò si accosta poi ancora la cantilena "con il suo diritto c'è speranza". Un atto criminale di un'efferata violenza e disumanità ("lapidazione") ai danni di un uomo, la cui pretesa colpa sembra ridursi alla sua (supposta) confessione ("politeista houthi"), è presentato come un atto di giustizia. Il filmato dunque veicola un'idea di giustizia dello «Stato islamico» e in quanto tale ha chiara natura propagandistica. A ciò nulla muta l'addotta reazione di un internauta alla condivisione del filmato da parte del ricorrente. Il commento "Offffff offffff all'inferno con tutti i crudeli del mondo" non modifica la natura del filmato. La frase si presta peraltro a più interpretazioni, quella proposta nell'impugnativa di "compassione, solidarietà e partecipazione alle sofferenze della vittima" e quindi di condanna dei carnefici, ma anche più prosaicamente di approvazione della "punizione" inflitta alla vittima che meriterebbe l'inferno in quanto politeista. Ma anche a voler seguire la tesi difensiva, la circostanza che il filmato non raccolga, in singoli casi, i consensi sperati non significa che non faccia comunque pubblicità all'organizzazione vietata e alle sue idee.  
Il filmato è certo corredato da una didascalia, ma come espressamente affermato dall'autorità precedente - che contrariamente a quanto pretestuosamente sostenuto nel gravame si è pronunciata in merito - non è sufficiente a compensare il carattere propagandistico del filmato, pur volendo accordare un carattere di denuncia alla citata didascalia. Come già osservato dalla Corte di appello, è redatta in lingua araba, lingua non comunemente compresa alle nostre latitudini e peraltro nemmeno dal ricorrente, ed è priva di qualsiasi spiegazione sul contesto geografico, politico e storico. Queste considerazioni sono pertinenti e corrette, vi si soggiunge ancora che è sprovvista della benché minima critica dello «Stato islamico». La didascalia, ben lungi dallo "sdoganare", contestualizzare o biasimare il filmato, abbandona l'osservatore alla mercé della propaganda veicolata dallo stesso. Seppure formalmente associ all'ISIS il termine di "delinquenza", tale pretesa "denuncia" appare piuttosto un alibi per diffondere il filmato. La didascalia in realtà è formulata in un modo tale da incitare a una rapida propagazione dello stesso. Invita infatti a condividere "la pubblicazione prima che venga eliminata", presenta il "nuovo metodo di esecuzione dell'ISIS" e sconsiglia ai minori di visionare il filmato senza precisarne le ragioni, offrendo dunque tutti gli elementi per attirare l'attenzione e raggiungere il maggior numero di visualizzazioni possibili, ma non certo per sensibilizzare sulle problematiche connesse all'organizzazione vietata o per informare al riguardo. 
 
5.7. Con riferimento all'aspetto soggettivo, l'insorgente contesta innanzitutto che la fattispecie possa essere commessa con dolo eventuale, l'azione di propaganda potendo essere concepita unicamente nella forma del dolo diretto. La propaganda costituirebbe infatti un tentativo deliberato e sistematico di influenzare l'opinione pubblica e sarebbe frutto di un preciso disegno. La diffusione di "un'informazione nuda e cruda", che potrebbe comportare l'effetto collaterale di pubblicizzare e favorire una determinata idea, non potrebbe configurare reato penale. In caso contrario, si renderebbero punibili i redattori di giornali e telegiornali, gli autori di documentari o di libri di storia. Il ricorrente sostiene in seguito di non aver mai avuto l'intenzione, né l'eventuale consapevolezza di fare della propaganda per lo «Stato islamico». Avrebbe agito con l'intento di "partecipare alla denuncia delle violenze", "prescindendo in modo assoluto dal credo e dalle ideologie", esattamente come per gli altri filmati condivisi sul suo profilo. La sua volontà di denuncia delle atrocità, perpetrate in nome delle più svariate ideologie, sarebbe il denominatore comune dei video da lui condivisi. La conclusione della Corte di appello sul dolo sarebbe arbitraria, violerebbe il suo diritto di essere sentito, il diritto al rispetto della sua vita privata, costituirebbe una discriminazione razziale e confermerebbe l'atteggiamento prevenuto dei giudici nei suoi confronti. Dalla lettura della sentenza impugnata trasparirebbe come la condanna dell'insorgente sia in realtà da ricondurre alla sua fede di musulmano praticante, al suo legame di parentela con B.________ e ai sospetti, rivelatisi infondati, su suoi legami con un presunto estremismo islamico.  
 
5.7.1. Il ricorrente enumera una serie di diritti costituzionali asseritamente disattesi dalla Corte di appello, senza tuttavia addurre per ognuno di essi i motivi a sostegno della sua critica. Ciò è in particolare il caso delle pretese violazioni del suo diritto di essere sentito o del divieto dell'arbitrio, prive di un seppur minimo accenno di motivazione, in urto con quanto esatto dall'art. 106 cpv. 2 LTF. Saranno pertanto vagliate unicamente le censure supportate da una sufficiente motivazione.  
 
5.7.2. Salvo che la legge disponga espressamente in altro modo, è punibile solo colui che commette con intenzione un crimine o un delitto (art. 12 cpv. 1 CP). Commette con intenzione un crimine o un delitto chi lo compie consapevolmente e volontariamente. Basta a tal fine che l'autore ritenga possibile il realizzarsi dell'atto e se ne accolli il rischio (art. 12 cpv. 2 CP). La seconda frase dell'art. 12 cpv. 2 CP definisce il dolo eventuale (DTF 133 IV 9 consid. 4), che sussiste laddove l'agente ritiene possibile che l'evento o il reato si produca e, cionondimeno, agisce, perché prende in considerazione l'evento nel caso in cui si realizzi, lo accetta pur non desiderandolo (DTF 147 IV 439 consid. 7.3.1).  
Nella misura in cui la disposizione penale prevede, esplicitamente o implicitamente, l'intenzione, il dolo eventuale è sufficiente. Ne va diversamente quando la legge esige che l'autore agisca in "malafede" (" wider besseres Wissen "; v. ad esempio art. 174, 303 seg. CP), rispettivamente "scientemente" (v. ad esempio art. 221 cpv. 2, art. 223 n. 1 cpv. 1, art. 227 n. 1 cpv. 1 CP; art. 24 cpv. 1 e 2, art. 25 dell'Ordinanza del 20 novembre 2013 contro le retribuzioni abusive nelle società anonime quotate in borsa [OReSA; RS 221.331]), in questi casi egli deve avere una conoscenza certa, non essendo sufficiente una semplice presa in considerazione (DTF 76 IV 243; sentenza 6S.407/2002 del 28 settembre 2003 consid. 1.3; v. pure TRECHSEL/FATEH-MOGHADAM, in Schweizerisches Strafgesetzbuch, Praxiskommentar, 4 a ed. 2021, n. 17-18 ad art. 12 CP; NIGGLI/MAEDER, in Basler Kommentar, Strafrecht I, 4 a ed. 2019, n. 74-75 ad art. 12 CP; DUPUIS ET AL., op. cit., n. 20 ad art. 12 CP; VILLARD/CORBOZ, in Commentaire romand, Code pénal I, 2 a ed. 2021, n. 69 ad art. 12 CP).  
L'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI non limita in alcun modo l'intenzione dell'autore al solo dolo diretto, per nessuna delle varianti del reato (v. sentenza 6B_169/2019 del 26 febbraio 2020 consid. 2). Il reato giusta l'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI può dunque essere commesso con dolo eventuale. 
 
5.7.3. Il ricorrente non censura la valutazione delle prove e l'accertamento dei fatti sulla base dei quali la Corte di appello ha ritenuto che egli ha sicuramente associato il filmato condiviso alla propaganda per lo «Stato islamico» e a ciò che all'epoca avveniva nei territori da esso occupati, e che egli ha quanto meno preso in considerazione di facilitare la rapida veicolazione del messaggio propagandistico condividendo il filmato sui social network. Orbene, ciò che l'autore sapeva, voleva o ha preso in considerazione sono questioni di fatto (DTF 141 IV 369 consid. 6.3; 138 V 74 consid. 8.4.1), che vincolano di principio questa Corte, tranne quando i fatti sono stati accertati in modo manifestamente inesatto o in violazione del diritto (v. art. 105 LTF), ciò che in concreto l'insorgente non pretende. Egli si limita a lamentare al riguardo, in modo alquanto generico e laconico, un'asserita discriminazione e una violazione del rispetto alla vita privata in relazione, a quanto è dato di capire, ai riferimenti alla sua fede musulmana. La critica appare piuttosto pretestuosa. Infatti la Corte di appello ha dovuto determinare cosa il ricorrente sapesse, a fronte della sua pretesa ignoranza dello «Stato islamico» e della jihad. Pur precisando che, all'epoca dei fatti incriminati, lo «Stato islamico» e ciò che avveniva nei territori da esso occupati erano un tema d'attualità per tutta la comunità internazionale, compresa quella musulmana, l'autorità precedente ha vagliato la posizione del ricorrente in particolare. Essa non si è limitata a richiamare la sua fede, ma ha analizzato tutta una serie di elementi personali, tra cui: il ritrovamento nella sua abitazione di un libro dal titolo "Jihad, violenza, guerra e pace nell'islam", la sua attività di internauta (plauso a un gruppo Facebook di matrice jihadista, apposizione di "mi piace" a un gruppo Facebook jihadista, glorificazione della dottrina salafita al-Wala'wa-l-Bara, condivisione di un post di una fotografia di connotazione jihadista); la presenza nei suoi dispositivi elettronici di una foto di C.________, persona espulsa dall'Italia e dalla Svizzera a causa del pericolo che rappresentava per entrambi gli Stati e poi partita per combattere tra le fila dello «Stato islamico», peraltro ospitata dall'insorgente nella sua abitazione; le sue conversazioni con l'imam della sua moschea in occasione delle quali egli ha potuto sviluppare delle conoscenze dello «Stato islamico» con riferimento quanto meno al contesto globale nel quale tale organizzazione operava; la visione della trasmissione televisiva Falò che proponeva scene di diversi filmati propagandistici dello «Stato islamico» dalle caratteristiche simili a quello poi condiviso dal ricorrente. Sulla scorta di questi elementi la Corte di appello ha accertato che all'insorgente, contrariamente alle sue dichiarazioni, erano noti sia la nozione di jihad (armata e non) sia i gruppi «Al-Qaïda e/o Stato islamico», e che egli aveva riconosciuto che il filmato e il messaggio propagato fossero associabili allo «Stato islamico».  
 
5.7.4. Appare poi temerario il gravame laddove propone un parallelismo tra l'agire dell'insorgente e quello di giornalisti, ricercatori o storici. Il lavoro di questi ultimi non si riduce a diffondere "un'informazione nuda e cruda", l'informazione viene al contrario da loro contestualizzata e analizzata. Il ricorrente non ha fatto nulla del genere, si è limitato a condividere un filmato di propaganda. Dell'asserita volontà di denuncia delle atrocità ivi riprese non vi è traccia, non potendo essere ritenuta dalla scarna didascalia accostata al filmato. È infatti stato accertato che egli non poteva aver compreso il significato della didascalia perché non capisce l'arabo e perché non ha utilizzato il sistema di traduzione fornito da Facebook, determinante per lui era solo il filmato in quanto tale.  
 
5.7.5. Alla luce dei fatti accertati, la conclusione dell'autorità precedente sulla sussistenza del dolo eventuale risulta conforme al diritto. Riconoscendo il carattere propagandistico del filmato riconducibile allo «Stato islamico» e condividendolo senza riserve sul suo profilo Facebook, cosciente dell'effetto amplificatore della condivisione, il ricorrente ha accettato il rischio di promuovere in altro modo le attività dello «Stato islamico» e di rafforzare il potenziale dell'organizzazione vietata, e ciò malgrado non sia legato alla stessa.  
 
5.8. Sono in definitiva date le condizioni oggettive e soggettive del reato di cui all'art. 2 cpv. 1 LAQ/SI. La condanna del ricorrente deve di conseguenza essere confermata.  
 
6.  
Alla luce di quanto precede, per quanto ammissibile, il ricorso si rivela infondato e dev'essere pertanto respinto. 
La domanda di assistenza giudiziaria con gratuito patrocinio può trovare accoglimento (art. 64 cpv. 1 LTF). L'avvocato Costantino Castelli è incaricato del gratuito patrocinio del ricorrente e a tale titolo la Cassa del Tribunale federale gli verserà un'adeguata indennità. Se in seguito sarà in grado di farlo, l'insorgente è tenuto a risarcire la Cassa del Tribunale federale (art. 64 cpv. 4 LTF). 
Non si accordano ripetibili alle autorità vincenti, che del resto nemmeno sono state invitate a inoltrare osservazioni al ricorso (art. 68 cpv. 3 LTF). 
 
 
Per questi motivi, il Tribunale federale pronuncia:  
 
1.  
Nella misura in cui è ammissibile, il ricorso è respinto. 
 
2.  
La domanda di assistenza giudiziaria con gratuito patrocinio è accolta. L'avv. Costantino Castelli viene incaricato del gratuito patrocinio del ricorrente. 
 
3.  
Non si prelevano spese giudiziarie. 
 
4.  
La Cassa del Tribunale federale verserà al patrocinatore del ricorrente un'indennità di fr. 3'000.--. 
 
5.  
Comunicazione al patrocinatore del ricorrente, al Ministero pubblico della Confederazione e alla Corte d'appello del Tribunale penale federale. 
 
 
Losanna, 8 giugno 2023 
In nome della Corte di diritto penale 
del Tribunale federale svizzero 
 
La Presidente: Jacquemoud-Rossari 
 
La Cancelliera: Ortolano Ribordy