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Urteilskopf

117 Ia 401


63. Estratto della sentenza della Corte di cassazione penale del 9 aprile 1991 nella causa B. c. Procura pubblica sottocenerina (ricorso di diritto pubblico)

Regeste

Art. 4 BV und Art. 6 EMRK, Art. 249 BStP.
Verwendung als Beweismittel von Aussagen ehemaliger Mitangeschuldigter in einem im Ausland durchgeführten Verfahren, die in jenem Verfahren dank ihrer Mitarbeit (als sog. "pentiti") in den Genuss von Strafreduktionen und anderen Vorteilen kamen. Eine derartige Verwendung ist im Rahmen der Beweiswürdigung, die der Richter nach seiner Überzeugung vorzunehmen hat, nicht ausgeschlossen. Im konkreten Fall wurden diese Personen vom schweizerischen Richter nicht als Zeugen, sondern lediglich als Mittäter, ohne Leistung eines Eides, angehört (E. 1).

Sachverhalt ab Seite 401

BGE 117 Ia 401 S. 401
Con sentenza del 6 novembre 1989 la Corte delle assise criminali del Cantone Ticino sedente a Lugano dichiarava B. colpevole dell'assassinio del giudice T., commesso a Roma il 10 ottobre 1978,
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e di rapina aggravata tentata in due occasioni ai danni della Banca Nazionale delle Comunicazioni, commessa nel giugno e nel luglio 1979 a Roma, e lo condannava alla reclusione perpetua. Tale corte lo assolveva invece dall'accusa di tentato assassinio nella persona di V. e da un terzo tentativo di rapina ai danni della banca sopra menzionata.
Adita sia dall'imputato che dalla Procura pubblica sottocenerina, la Corte di cassazione e di revisione penale del Cantone Ticino (CCRP) respingeva con sentenza del 6 aprile 1990 il ricorso di B. e accoglieva parzialmente quello della Procura pubblica. La CCRP dichiarava B. colpevole anche del terzo tentativo di rapina, avvenuto il 24 settembre 1979 a Roma, ma riduceva la pena a 17 anni di reclusione in virtù dell'applicazione del nuovo art. 112 CP, entrato in vigore nel frattempo, ossia il 1o gennaio 1990.
B. è insorto con ricorso di diritto pubblico contro la sentenza della CCRP, chiedendone l'annullamento.
La Corte di cassazione penale del Tribunale federale ha respinto il ricorso nella misura in cui era ammissibile.

Erwägungen

Considerando in diritto:

1. Il ricorrente rileva in primo luogo che non era consentito all'autorità cantonale di utilizzare come mezzi di prova le dichiarazioni rese dai coimputati "pentiti", i quali, in tale qualità, avevano beneficiato in Italia di riduzioni di pena e di altri vantaggi previsti dalla legge italiana. L'utilizzazione di questi mezzi di prova viola a suo avviso l'art. 4 Cost., l'art. 6 CEDU e le norme della legge federale sull'assistenza internazionale in materia penale (AIMP). La legislazione italiana concernente i cd. pentiti sarebbe contraria ai principi del diritto processuale svizzero e sarebbe pertanto lesivo dell'art. 4 Cost. e dell'art. 6 CEDU tener conto delle dichiarazioni fatte dai pentiti in base a una richiesta dell'autorità cantonale, avvenuta nel quadro della normativa procedurale svizzera. Nell'interrogare i coimputati pentiti, la Corte delle assise criminali ticinese avrebbe agito in modo inammissibile, perché contrario agli art. 30 e 65 lett. c AIMP.
a) È incontestato che i coimputati (nel procedimento italiano) C., D., S. e P. uditi non come testi a Lugano, e i coimputati (sempre nel procedimento italiano) Sa., L., Br. e A. sentiti dalla Corte delle assise criminali ticinese a Roma non come testi, erano stati puniti in Italia, in virtù della legislazione italiana applicabile in tale
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materia, in modo considerevolmente mite e hanno fruito di notevoli vantaggi per quanto concerne la liberazione provvisoria o condizionale, per essere stati disposti a collaborare con le autorità italiane nell'ambito del procedimento avviato nei loro confronti e, in particolare, a deporre contro i loro correi. È pure incontestato che i "pentiti" rischierebbero di perdere le agevolazioni loro accordate se dovesse risultare che essi avevano a suo tempo reso false o reticenti dichiarazioni (v. gli art. 9 e 10 della legge italiana n. 304/82).
b) Contrariamente a quanto ritiene il ricorrente, non può parlarsi al riguardo di alcuna violazione di norme del codice penale svizzero o del codice di procedura penale ticinese. Le autorità penali ticinesi non hanno promesso alcuno sconto di pena o altro vantaggio ai coimputati (nel procedimento italiano), prima di interrogarli come semplici informatori, né hanno comminato loro la revoca di tali agevolazioni in caso di falsità o reticenza. Esse non si sono valse di un istituto procedurale analogo a quello chiamato del "teste della corona", e a cui si avvicina la disciplina introdotta in Italia per i terroristi pentiti; tale istituto manca del tutto nella procedura penale ticinese e non è stato in alcun modo "contrabbandato" in Svizzera dalla Corte delle assise criminali ticinese. Non essendosi in presenza di mezzi di prova ottenuti illegittimamente, non si pone quindi la questione se le risultanze probatorie litigiose siano lesive dell'art. 4 Cost. o dell'art. 6 CEDU. Poiché le autorità ticinesi non hanno promesso o accordato agli informatori di cui si tratta alcuna agevolazione per quanto concerne le pene a loro inflitte in Italia, manca invero il presupposto del conseguimento illecito di mezzi di prova.
Non esiste nel codice penale svizzero né nella procedura penale ticinese una disposizione che vieti di sentire persone che all'estero beneficiano dello statuto di "teste della corona". Il ricorrente stesso non adduce una norma di tal fatta. Egli ritiene peraltro che gli interrogatori in questione, svoltisi sia a Lugano che in Italia nel quadro dell'assistenza giudiziaria internazionale in materia penale, violino le disposizioni dell'AIMP. La sua tesi è infondata. Nel caso concreto non sono violati né l'art. 30 cpv. 1 AIMP, secondo il quale le autorità svizzere non possono presentare a uno Stato estero domande cui esse non potrebbero dar seguito secondo detta legge, né l'art. 65 lett. c AIMP, secondo il quale le forme di acquisizione e asseverazione dei mezzi di prova devono essere compatibili con il diritto svizzero. Alla Svizzera sarebbe senz'altro
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consentito di dar seguito a una domanda straniera di assistenza tendente all'audizione di una persona che benefici all'estero dello statuto di "teste della corona", ossia a una domanda analoga a quella che la Svizzera ha nella fattispecie presentato all'Italia. Già si è illustrato come la semplice audizione di tali persone sia del tutto compatibile con la legislazione federale e con quella procedurale ticinese. Da quanto sarà esposto in seguito risulterà che l'assunzione delle prove in discussione non viola, nelle circostanze del caso concreto, neppure il diritto costituzionale svizzero né la CEDU.
Giova d'altronde rilevare che la censura con cui è invocata la violazione delle disposizioni dell'AIMP, in quanto considerata, come è pure manifestamente richiesto dal ricorrente, quale censura a se stante (ossia non quale censura concernente la questione pregiudiziale della violazione dell'art. 4 Cost. o dell'art. 6 CEDU attraverso l'utilizzazione di mezzi di prova non consentiti ai sensi dell'AIMP), non è ammissibile nel quadro della procedura relativa al ricorso di diritto pubblico. Tale censura avrebbe dovuto essere sollevata nella procedura stabilita negli art. 16 e segg. AIMP e fatta valere poi con ricorso di diritto amministrativo (art. 25 AIMP), rimedio non esperito nella fattispecie.
c) Il Tribunale federale non ha sin qui avuto occasione di esaminare se l'utilizzazione di dichiarazioni a carico di una persona, rese da un suo correo che, al beneficio dello statuto di "teste della corona", ha ottenuto in tale sua qualità riduzione di pena e altre agevolazioni, sia conforme alla Costituzione o alla CEDU. Neppure la dottrina svizzera s'è apparentemente occupata sin qui di tale problema. La Commissione europea dei diritti dell'uomo ha invece dovuto decidere su di un caso concernente un siffatto "teste della corona", a cui era stata garantita l'impunità. Essa non ha censurato l'utilizzazione a fini di prova delle sue dichiarazioni, negando peraltro una violazione dell'art. 6 CEDU solo in considerazione delle circostanze del caso concreto. In particolare, la Commissione europea ha tenuto conto del fatto che era stata data conoscenza alla difesa e ai giurati dell'intesa intervenuta tra l'accusa pubblica e il teste d'accusa, che la difesa non si era opposta all'audizione di tale teste e che il presidente della Corte aveva esortato in modo speciale i giurati ad esaminare la questione della credibilità di detto teste (Decisioni della Commissione europea dei diritti dell'uomo 7376/76 nella causa X c. Regno Unito, DR pag. 115, in particolare pag. 118 e 122).
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aa) Né l'art. 4 Cost. né la CEDU regolano i criteri di utilizzazione dei mezzi di prova. Tali criteri risultano in primo luogo dalla procedura penale cantonale, o da eventuali norme processuali generali del diritto federale o cantonale. Le disposizioni della CEDU o della Costituzione contengono unicamente garanzie procedurali che vanno intese ed ossequiate nel senso di requisiti minimi destinati ad assicurare un processo equo ed imparziale, come risulta, in particolare, da quanto richiesto dall'art. 6 CEDU. Ne discende che l'ammissibilità dell'assunzione di mezzi di prova non è disciplinata astrattamente né in base a norme della CEDU né in base a quelle della Costituzione. Trattasi invece di esaminare di caso in caso, concretamente, se la procedura probatoria possa essere ritenuta equa ed imparziale e, soprattutto, se siano stati rispettati i diritti della difesa (Decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo, Serie A, vol. 140, causa Schenk).
bb) Come già rilevato, né la procedura penale ticinese né il diritto federale vietano espressamente che siano utilizzate dichiarazioni rese da un correo, che in un procedimento penale all'estero abbia beneficiato dello statuto di un "teste della corona" e che, in pratica, mantiene tale statuto anche nel procedimento aperto in Svizzera contro la persona da lui accusata, sia perché si sente vincolato a quanto da lui dichiarato in precedenza sugli stessi fatti, sia perché teme di perdere altrimenti le agevolazioni accordategli a questo titolo.
Il principio della libera valutazione delle prove, enunciato nell'art. 249 PP, comporta che il giudice penale decida, senza essere vincolato da regole concernenti le prove legali ed esclusivamente in base al suo convincimento personale, fondato su di un esame coscienzioso delle circostanze, se un fatto vada ritenuto come provato. Ne segue che è vietato al giudice di negare anticipatamente e in modo generale, l'idoneità di determinati mezzi a servire come prova. Tale principio non è tuttavia incompatibile con limitazioni in materia di prova risultanti perché il diritto cantonale o norme di diritto di rango superiore, costituzionale o convenzionale, escludono certi mezzi di prova o ne subordinano l'ammissibilità a determinate condizioni, per ragioni diverse da quelle dell'idoneità a servire come prova, per esempio allo scopo di tutelare interessi pubblici o privati meritevoli di protezione (DTF 115 IV 268 consid. 1 e richiami). Ne deriva che le dichiarazioni di un "teste della corona" straniero non possono essere considerate come un mezzo di prova inammissibile in ogni caso perché inidoneo
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ad avere forza probatoria; se così non fosse, il giudice sarebbe impedito di apprezzare liberamente, ossia secondo il proprio convincimento, i mezzi di prova e sarebbe così violato il precetto stabilito dal diritto federale della libera valutazione delle prove. La censura ricorsuale è pertanto infondata nella misura in cui ritiene in modo generale inammissibile l'utilizzazione quale mezzo di prova delle dichiarazioni dei pentiti, per essere queste astrattamente sprovviste di idoneità probatoria a causa delle agevolazioni accordate ai loro autori o del timore che questi potrebbero avere di perderle. La questione se fosse arbitrario riconoscere alle dichiarazioni rese concretamente dai pentiti la forza probatoria loro riconosciuta dalle autorità cantonali può essere trattata soltanto in sede di esame della censura relativa alla valutazione arbitraria delle prove.
cc) A sostegno della sua tesi, secondo cui le dichiarazioni dei pentiti non possono essere utilizzate, il ricorrente adduce che l'assunzione di tali prove è illecita. Già s'è detto che l'interrogatorio dei pentiti non viola l'ordinamento giuridico svizzero né quello ticinese. Il ricorrente non spiega perché debba dedursi dall'art. 4 Cost. o dall'art. 6 CEDU un divieto assoluto e generale di utilizzare questo mezzo di prova. Se perfino un mezzo di prova assunto illecitamente non comporta necessariamente il divieto di servirsene (DTF 109 Ia 246 consid. b; sentenza del Tribunale federale del 10 dicembre 1987 pubblicata in Schweizerisches Zentralblatt für Staats- und Gemeindeverwaltung vol. 90/1988 pag. 420; cfr. anche la citata decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo, Serie A, vol. 140, nella causa Schenk), ciò deve valere a maggior ragione nella fattispecie (ad analoga conclusione è pervenuta anche la Commissione europea dei diritti dell'uomo nella sua citata decisione nella causa DR 7 pag. 115).
Il fatto di punire in modo più mite l'agente pentito non contraddice, in linea di principio, la disciplina giuridica svizzera. Lo dimostra l'art. 64 cpv. 5 CP; anche se tale norma è applicata con criteri restrittivi, essa ha comunque per effetto che il pentimento è considerato come elemento di attenuazione della pena nel quadro dell'art. 63 CP (v. sulla relazione tra l'art. 64 e l'art. 63 CP, DTF 110 IV 10, DTF 107 IV 97, DTF 106 IV 340 seg., DTF 101 IV 309 seg., DTF 98 IV 49, 311, DTF 97 IV 79, 81). Rilevante in tale quadro è anche l'atteggiamento cooperativo dimostrato dal reo durante l'inchiesta delle autorità istruttorie. La differenza tra la disciplina vigente al proposito in Svizzera e la legislazione italiana sui pentiti consiste
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soprattutto nella maggior concretezza con cui in Italia sono contemplate le riduzioni della pena e le agevolazioni relative all'esecuzione di quest'ultima e alla libertà provvisoria, come pure nella maggiore portata in Italia di tali riduzioni e agevolazioni. Se l'incentivo a "pentirsi" fondato sulla legge italiana è quindi maggiore, va considerato peraltro che, in senso contrario, maggiori sono altresì gli effetti pregiudizievoli a carico dell'agente le cui dichiarazioni risultino poi fallaci; accanto ad un'eventuale punizione per denuncia mendace o falsa testimonianza, ove ne siano dati i presupposti di legge, l'interessato rischia in Italia infatti di perdere i ragguardevoli benefici concessigli.
Il tener conto nel procedimento svizzero delle dichiarazioni dei pentiti nella valutazione delle prove non lede quindi principi fondamentali dell'ordinamento svizzero, come assume il ricorrente, anche se la legislazione italiana sui pentiti ha certamente continuato a influenzare l'atteggiamento di tali pentiti nel corso di detto procedimento. Va rilevato inoltre che, a differenza della classica figura del "teste della corona" conosciuta dal diritto anglosassone (Common Law), i pentiti non beneficiano in Italia, almeno per i reati più gravi, d'impunità, bensì solo di riduzione, sia pure talora assai elevata, della pena. La disciplina italiana sui pentiti non va neppure confusa con un accordo (plea bargaining) tra un imputato confesso e desideroso di cooperare da un lato, e l'autorità inquirente, dall'altro, nel senso di un patteggiamento; per i pentiti trattasi di una riduzione della pena, che può accordare esclusivamente e autonomamente il competente tribunale.
dd) Contrariamente all'avviso del ricorrente, nei casi concreti oggetto del presente giudizio in cui sono state utilizzate dichiarazioni di correi beneficianti in Italia del trattamento riservato ai pentiti sono adempiute le condizioni richieste dalla Commissione europea dei diritti dell'uomo nel caso Schenk perché possa esser tenuto conto validamente di tale mezzo di prova.
È vero che, a differenza di ciò che avvenne nel menzionato caso sottoposto alla Commissione europea dei diritti dell'uomo, la quale ha rilevato tale circostanza, il ricorrente si è opposto all'audizione dei pentiti. Non ne può tuttavia essere dedotto che il mezzo di prova di cui trattasi non è ammissibile solo perché chi ne sia svantaggiato vi si oppone; l'accordo o l'opposizione di costui non può essere determinante, ma, semmai, costituire un elemento, tra tanti altri, rilevanti per la decisione.
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Ai giudici e agli assessori giurati era del tutto nota la condizione di pentiti delle persone interrogate. La questione della loro credibilità in quanto pentiti è stata d'altronde loro ricordata espressamente dalla difesa del ricorrente, quando si è opposta alla loro audizione. Che la Corte cantonale delle assise criminali fosse consapevole di tale circostanza e della sua importanza è dimostrato anche dal fatto che i "pentiti" sono stati sentiti non come testi, bensì soltanto come correi, senza prestazione di giuramento; secondo la procedura penale ticinese, i testi sono infatti tenuti a prestare giuramento al dibattimento (art. 82 CPP/TI); esonerati da tale obbligo sono, in linea di principio, soltanto la parte lesa e i suoi congiunti, altrimenti equiparati a testimoni (art. 80 CPP/TI). In questo modo è stato tenuto conto di una possibile parzialità delle persone sentite; in altre procedure cantonali tale aspetto è preso in considerazione sentendo le persone sospettabili di parzialità non come testi, bensì soltanto come informatori ("Auskunftspersonen"; cfr. al proposito, HAUSER, Strafprozessrecht, pag. 177).
Neppure lo stesso ricorrente pretende che l'ammissibilità del mezzo di prova litigioso (audizione dei pentiti) debba essere subordinato a condizioni più rigorose. Ciò appare evidente, e se così non fosse si rischierebbe di far capo a regole concernenti le prove legali (ai sensi dell'art. 249 PP), suscettibili d'impedire una valutazione delle prove da parte del giudice secondo il proprio convincimento, ossia di violare il principio della libera valutazione delle prove (DTF 115 IV 268).
Discende da quanto sopra che la sentenza impugnata non lede l'art. 4 Cost. o l'art. 6 CEDU nella misura in cui ha ammesso l'utilizzazione delle deposizioni dei pentiti quale mezzo di prova.

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